Leggere Verdiglione

n. 19 • Il nome: non il nome del nome

Lettura di Armando Verdiglione, La psicanalisi questa mia avventura, sulla “Sovversione della ragione”. Pagina 31: è questione della nominazione, questione del funzionamento di un nome.

“La sovversione della ragione” di Armando Verdiglione risponde a lato, in margine, né de lato né relato, alla sovversione del soggetto di Lacan. Ma la versione è un'altra cosa, e così il verso. La sovversione della ragione inaugura la nominazione e non s’inscrive nel fatto del nome spirituale, nominabile e nominato. Nome del nome e nome dell’Altro, nome della morte e nome del nulla.

«Io sono Napoleone» non fa il verso a Napoleone, non è la sua riproduzione economica. Non è il suo doppio frazionario e non è il suo sosia sommario.  Che non sia l'esempio della malattia mentale indica che l’operatore, l’idea, non è ideale, non è sotto il giogo della procedura per distruzione. E la psichiatria fa dell’enunciato una malattia per fondare lo psichiatra come Napoleone riuscito.

Il nome non è nominabile: è inconvertibile nel nome del nome. La struttura della parola non si duplica: la sintassi non diverrà mai meta-sintassi o sintassi sociale o sintassi di spirito. «Un nome estremamente improprio, vuoto di senso: non ha proprietà sociali, non è pieno di senso sociale. Non c’è chi possa dettare il senso: sradicarlo come effetto della parola e trapiantarlo come idolo o spetto del discorso, che è sempre di spirito, di Sophía, del sistema. Nominarlo è fatuo. L’idea del nome non ha presa sul nome, sulla sua innominabilità e sul suo anonimato. Impossibile nominare il nome: «nominarlo indica un atto in cui un altro nome funziona». L’atto è intraducibile nel fatto, familiare o tribale, poiché quel che è dato dagli esperti come nome sfugge alla presa della nome del nome. Questa fuga, inelaborata, resta in Lacan come “nome del nome del nome”. Il nome è un elemento linguistico come nome. La “concatenazione” è la sua puntuazione, la sua sintassi. Non c’è atto dell’atto: l’azione manca il bersaglio di negare l’atto. «Non c'è scritto dello scritto» se non travolto dalla scrittura sintattica, come nella narrazione di Schreber e non solo nella narrazione di Freud intorno a Mosè.

Lo spaccio contro la nominazione non riesce. Nell’enunciazione un nome annoda una differenza: non è un anello di una catena, non annoda “significanti” in un sistema di significazione falloforico, ma dal nodo procede una differenza sintattica, non la vincola, provoca una alterità insormontabile. Un nome non è un nome. Lo zero non è uno. La sintassi non è frastica e la frase non è sintattica. La paratassi non ha presa sulla parola. Un nome di una alterità impadroneggiabile e impossedibile dalla lingua comune, dal sistema, dalla lingua di sistema, dalla lingua di spirito.

L'elaborazione del nodo, nell’elaborazione cifrematica si specifica e si precisa come modo del due, dell’apertura, della relazione senza più soggetto, senza più portatore, senza più gnosi, cognizione, cognitivismo. Il nome procede dal due e il nodo, il ponte, la barra, il diagramma, il fallo sono modi, non modalità sociali, sono modi del due della parola.

Nell’enunciato  il nome nella sua funzione di rimozione (il “non” dell’avere) provoca una alterità insormontabile: i montaggi sociali non tengono. La tenuta è intellettuale.

«Un punto di scissura, di diade»? È come dire che il nome provoca l'oggetto, la causa? Verdiglione lo dice, l’ha detto? Verdiglione si è sbagliato? I paragoni e i confronti del pappagallo scismatico non hanno preso sulla parola. Come per il pappagallo discorde Verdiglione di riferimento diviene Verdiglione bersaglio? Il pappagallo discorde è come un uccello (“vagina”) del cielo di Schreber: si salda nella concordia dei discordanti. La muta degli scissionisti, se leggesse, si butterebbe sul punto di scissura per fondare e affondare nella scissione, in luogo del tempo. La procedura per integrazione, nonché la questione cattolica elaborata da Verdiglione, è la procedura che non confina la combinatoria e la combinazione linguistiche. La “contiguità” fra punto e scissura e diade è indagata e foriera di altre elaborazioni. L’aritmetica del punto, della distinzione, dell’identificazione e del transfert. La scissura come divisione del tempo, come il tempo nel suo squarcio. La diade e non la doppia duplicità della quadratura di spirito, inseguita dalle dottrine religiose e dalle dottrine militari. Il due originario, non l’uno diviso in due: non il pappagallo originale che affolla i palcoscenici dello spettacolo e le sue copie economiche che affollano le quinte.

 

Il punto si precisa sempre più come condizione. Il punto come causa e oggetto, la condizione del nome e non solo. Questi dettagli (non saranno mai “ritagli” di un testo presunto di riferimento, come nella prassi universitaria) sono interessantissimi e spalancano altri nuovi laboratori.

Un punto di diade? L’elaborazione del due è antica in Verdiglione, precede l’avvio della sua pratica internazionale: la sua tesi di laurea su I giganti della montagna di Pirandello è un’elaborazione del due e dei suoi modi. Da qui l’importanza della “collina”, che non fonde nella confusione la montagna e la pianura.

«Io sono Schreber»: fu l'Ingegnere a portarmi sulla questione, fra “io sono e io faccio”, fra l’assumibilità ontologica e l’assumibilità pragmatica (la risposta mancata al quesito “che fare?”).  «Io sono Schreber e faccio Daniel Paul» e «Io sono Daniel Paul e faccio Schreber». Due formulazioni:  una intorno alla sovranità sulla parola e l'altra intorno alla sottanità sotto la parola. «Io sono Daniel Paul e faccio lo Schreber» è la via imperiale, «Io sono Schreber e faccio Daniel Paul» è la via della padronanza. La via dell’imperatore e la via del dominatore. Essere la gerarchia in relazione alla genealogia. Essere la genealogia in relazione alla gerarchia. Essere famiglia in relazione alla tribù e essere tribù in relazione alla famiglia. Tale è lo schema delle dottrine religiose e delle dottrine militari. La differenza fra guerra di famiglia e guerra di tribù, fra guerra interna e guerra esterna (anche fra stasi e assedio), fra fitna e jihad nell’islamismo, poggiano su questo schema. Il “sistema” di Aristotele in due classi è la stessa zuppa cannibalica. 

 

Irride cotale cosa Schreber, che fa una parodia della genealogia e della gerarchia. “«Io sono Schreber»: il presidente non si era accorto, prima della catastrofe, che Schreber fosse un nome. Non un significante né un personaggio, un nome che opera la concatenazione”. Schreber? C'è la catena? La concatenazione. “Un nome che opera la concatenazione di leggende, di discendenze, di razze, di storie, di genealogie che non vogliono dire nulla”. Riguardano il dire, il pleonasmo dell'onda, il pleonasmo del fare, il pleonasmo del dire, che non è il detto, che non vogliono dire nulla, non vogliono dire, vogliono, ma non solo, non vogliono dire, né vogliono, né vogliono dire, né possono, né possono dire, né sanno, né non sanno dire, né devono, né non devono dire.

La parodia di Schreber dissipa le modalità della lingua di sistema: volere, potere, dovere, sapere. Poi, in formulazione molto più recente, Verdiglione insiste molto tra le categorie dell'uguale e le modalità della volontà. È quasi ridondante le modalità della volontà, perché la volontà è una modalità e la modalità è già il modo del modo. Allora la modalità della modalità è la cristallizzazione della modalità, forse è il caso della spettralità.

«Un nome estremamente improprio, vuoto di senso», proprio non dice nulla, non significa, ma non solo: nulla significa nella parola. «Un nome estremamente improprio, vuoto di senso. Sicché nominarlo [quel nome “Schreber”, dire “io sono Schreber” è nominarlo, apparentemente. Come interviene questo elemento linguistico?], sicché nominarlo indica un atto in cui un altro nome funziona». Poi non interverrà quasi più “un altro nome”, ma semmai di nome in nome, un nome qualificato come “un altro”, in cui come altro nome funziona. La presunzione della nominazione del nome, ovvero Schreber come nome in questo caso, è fatua: è un altro nome che funziona, non è il nome del nome. Schreber non è il nome del nome e la funzione di nominazione, dicendo “Schreber”, non è tolta. Un altro nome annoda altri elementi linguistici, altre leggende, altre storie, altre favole che non vogliono dire nulla. Non riescono, non esiste il dire sul dire e neanche il dire sotto il dire, un atto mai riuscito quello di nominare.

E qui Verdiglione riprende Schreber: l'atto mancato. «Non c’è scritto dello scritto». Il testo delle Cose memorabili di Schreber, per gli psicopompi al potere dal 1936, quando l’Istituto di psicanalisi di Berlino è ingoiato dalla nascente psicoterapia di stato, è un libro di riferimento, un libro spirituale che conferma la casta nella sua misterica ignoranza. L’atto mancato, nudo, clandestino, anomalo, dissidente non è mai coperto dall’arcaismo delle impalcature sociali, metafisiche l’altro ieri, metapsichiche ieri e metatecniche oggi.

Inassumibile da un soggetto il disturbo, la lacuna, il fiasco, che lasciano mancato l’atto. C'è la riuscita nel gerundio della vita e non c’è l'atto riuscito come un fatto di logica, vero o falso. È la questione del fatto arcaico quella di un atto mancato o di un atto riuscito. La riuscita nell'atto è un fiore del pragma, l'approdo alla qualità estrema, alla cifra della parola, come effetto di verità.

«Non c'è scritto dello scritto», così «un atto mancato»: allora chi scrive dello scrivere? Ogni linguista, ogni filosofo, ogni matematico, ogni astrofisico: ogni doganiere della scrittura, con le sue formule ermetiche, per altro facili.

«Il “discorso psicotico” si articola nella traversata dell'isteria»: è per questa via che Verdiglione distingue la psicotizzazione dalla nevrotizzazione, entrambe fallacci, entrambe fantasticherie, entrambe tentativi, “algebrale uno” e l'altro “algebrale due”, “geometrale uno” e l'altro “geometrale due”. Sono quattro discorsi, ovvero quattro ipotesi erronee di atto di parola. Non hanno presa sulla parola queste ipotesi, nonché ipostasi. “Il discorso psicotico si articola nella traversata dell'isteria”: qui l'isteria è l'altro nome della parodia. Che altro inscenavano le isteriche di Charcot, che facevano il teatro che lui voleva, il cinema che lui voleva, e che ha impressionato artisti, che hanno riprodotto in quadri le scene in cui l'isteria “eseguiva” il teatro liturgico di Charcot.

Era lo sberleffo a Charcot in tutta la sua severità di maître. Ci sono uomini che amano la “presa per i fondelli”: se sono le donne che la fanno, permette di mantenere il fantasma dell'eterosessualità.

Il discorso psicotico si articola nella traversata che offre la parodia, che offre il gesto, che offre la linguistica della parodia, la linguistica del gesto, che è alinguistica, è la lingua del caso immunitario, civile, è la lingua del viaggio, è la lingua che procede per integrazione, è la lingua del sogno e della dimenticanza, è la lingua che sberleffa qua e là, pure tra annotazioni interessanti, il socio unico dell’unico senza soci.

«La vicenda di Schreber comincia in effetti con quel “Godi!” che costituisce l'enunciato isterico e della legge del linguaggio». Schreber s’interessa al godimento, è per questo che si vede crescere il seno: nella farsa presume che il corpo femminile abbia più nervi di voluttà. E allora per godere si fa donna di Dio? Solo per irridere la compagine umana nel suo spaccio dell’unisex in tutti i suoi generi. Gli umani sono fatti fugacemente e Schreber forgia la ballata del nascere nella parodia di una nuova progenie, dopo la constatazione dei klein-Fleschig e della loro inanità. Fra gli scissionisti ibridi perenni ci sono piccoli o giganteschi Schreber, soci unici dell’unico senza soci, che ancora trattengono (è il katechon, il “potere che frena” del socio) la riproduzione economica delle proprie copie: la nuova progenie di doppi e di sosia, che si schianterà nel tentativo impossibile di clonare la cifrematica.

 

«L'imperativo del godimento fa il paradosso di un Dio ridicolo, c'è anche qualcuno che spinga a godere, godi, inassumibile e comporta la parodia del Dio ridicolo, ride di sé e marca un punto di riso. Imperativo che implica anche l'ascolto: “Odi!”».

Verdiglione, per l’attenzione agli enunciati, non s’interessa di alcune questioni relative al caso Schreber, forse perché testimonianze di altri, che riguardano più il loro caso che quello di Schreber. Ovvero Schreber farà una prima formulazione paradossale (un gesto?) di queste questioni, prima ancora che in relazione a Dio, in relazione alla gerarchia, alla burocrazia, agli attanti sociali. Verso la fine dell’Ottocento, il presidente della Corte d'Appello è un imperatore in una città, una roccia inscalzabile e fa parte dell'alta burocrazia. Schreber si presenta alle elezioni e non vince, e qui cominciano i suoi interessanti “disturbi”. Il disturbo strutturale indica che la gerarchia è un fantasma, la genealogia è un fantasma, l'organizzazione familiare fondante è un fantasma. La tribù con la gerarchia affonda, come affonda la famiglia con la genealogia. La tribù affonda nelle guerre, la famiglia affonda nei disamori, o per l’appunto guerre di famiglia. Il presidente Daniel Paul Schreber non accetta il sistema, che avvolge nel delirio che non è suo ma è lo standard della sopravvivenza sociale e irrompe la nominazione che sfata l’arcaismo familiare e l’arcaismo sociale.

«Per Schreber il tu, anziché forma dell'Altro, diventa nome, dunque rigorosamente irripetibile.» Presunta forma dell'Altro, tu non è tu in quanto tale. È interessante riprendere la presunzione del tu quale forma dell'Altro, qui siamo fra il paragone falloforico e il confronto spettrale. Verdiglione distingue tra paragone come modo del due; e quindi non è un paragone sociale, non è un paragone familiare, non è un paragone gerarchico, non è un paragone genealogico. Poi distingue dal confronto, che non è proprietà del due, ma del sembiante, quale proprietà dell'oggetto e della causa nella parola.

Nessuna presunta forma dell'Altro, ma appunto il tu riguarda non tanto la relazione, non tanto il paragone, ma il confronto. E come forma dell’Altro è questione del confronto spettrale.

“Io” enuncia qualcosa intorno al paragone, “tu” enuncia qualcosa intorno allo spettro. Paragone idolare e confronto spettrale. Valgono anche altre variabili, perché siamo nel fantasma e quindi valgono l’alternanza e l’alternativa infinite potenziali (in “azione” perché mai in “atto”): anche fra paragone spettrale e confronto idolare. La gamma è spirituale e prima di dissolversi nel nulla l’idolo e lo spettro convergono da poli opposti nel dáimon dell’ultima guerra, dell’ultima morte e dell’ultimo nulla. Guerra definitiva il cui spirito è condiviso e chiamata dagli esperti misterici “conflitto intrapsichico” per la predominanza dell’idolo e “conflitto extra psichico” per la predominanza dello spettro. Io sono, tu sei, lui è: tale è il carosello soggettivo, categoriale e modale. E l'io, il tu e il lui sono divisi tra gli affetti e l'aggressività.

«Ecco l'imperativo in cui resta impossibile ridere al posto di un dio ridicolo». Schreber ne fa la parodia, ma si tratta del suo caso, e fa anche la parodia degli uomini fatti fugacemente, ma come la fa? In quanto presunto attante sociale, “presidente”, e quindi uomo fatto fugacemente, fatto così fugacemente che nonostante i titoli, nell’atto indici del nome, nel fatto arcaico chiamato “psicosi”, “del nome del nome del nome” (Lacan), il “nome del nome” non vince le elezioni e lì precipita la struttura sociale, l’impalcatura. È l’occasione per instaurare la nominazione e la linguistica del caso di qualità, che non ha nulla di psicotico.

Dio «Ridicolo benché sia onesto», come il dio onesto invocato da Cartesio. «Benché sia un perfetto uomo di legge, benché incarni la “coazione a pensare”». Come leggere ancora oggi questa questione freudiana per l'eccellenza: la coazione a pensare? La coazione è nella costellazione de cogito, dell’agire comune e quindi è il pensiero di spirito, è lo spirito come pensiero unico, universale. È un obbligo. Perché sarebbe un obbligo la riproduzione economica dell'idea di pensiero? Perché l'idea di pensiero è un'idea dell'avvenire e forgia il passato e quindi una volta forgiato occorre eseguirlo. L'azione di esecuzione doppia la coazione a pensare con la coazione a fare. Questa azione di esecuzione, quale riproduzione economica dell'idea dell'idea, toglie l’innocenza della vita. E così l'idea di far parte della squadra, di una borgata, di una famiglia, di una tribù, di un pensiero, di una nazione, è un processo penale e penitenziario.

«Dio è il travestimento della donna perché lei venga eternizzata e produca le somiglianze nella parata dell'istituzione». Difficile. Mai facile questa densità dell’elaborazione, Verdiglione la mantiene da più di cinquant’anni: è una costante. Una densità di questioni: moltissime vengono svolte e giungono altri risultati, a altra cifra, a altra qualità, a altro capitale. E altre piste restano da esplorare e restando da esplorare ne inventano infinite altre ancora. Non c'è nessuna esaustione delle piste. Cos'è il contrario di esaustione? Una concentrazione? Non sono le due facce dello stesso campo? Il campo di concentrazione è l'altra faccia del campo di esaustione, di riduzione a zero, di annullamento delle questioni e degli umani.

«Dio è il travestimento della donna» e forse Verdiglione risponde anche alla questione della donna in Lacan, ove non è la “questione donna”, ma la questione freudiana del femminile, la questione di come la donna interviene nella società governata teocraticamente, teologicamente, anche nel suo colmo ateologico. Questa è la mentalità comune, tutta quella mente dell'avverbio. La questione donna, sin da questi primi scritti di Verdiglione, è la questione dell’arte, dell’articolazione intellettuale, che ogni sistema teme e per questo  segrega le donne. Questione che si precisa nell’elaborazione più recente come questione della serie singolare triale. Dettaglio clinico immenso: togliendo la trialità della serie, ecco la donna trina: non solo le Parche e le Eumenidi, non solo la triade moglie, amante, suocera, non solo la devastazione (ravage per Lacan) del presunto rapporto fra madre e figlia.

Nel discorso vale la convertibilità di dio con il travestimento della donna, quindi la questione della donna è l'impalcatura che nega la “questione donna”, in modo che la donna al netto del piacere e al pieno della sofferenza sia formata per la repubblica dei soggetti. 

Non è solo la questione chiamata patriarcalismo, l'eternizzazione della donna toglie l'eternità, toglie il tempo. Ecco la donna della paralisi (madre e figlia, fata e strega); e il paralitico ama la donna paralitica, che produca le somiglianze nella parata delle istituzioni. Come produce questa “donna senza questione” le somiglianze? Gli uomini sono già tutti fratelli uguali, quindi tutti figli della stessa madre, rigorosamente incinta dello Spirito Santo. Per altre mitologie svolgere una ricerca intorno a Maria, nei testi ebraici, non nella Cristologia, a partire dall'etimo di Maria. «Schreber se ne accorge [della donna-madre sempre incinta] imbattendosi in quel che suscita l'isterizzazione della persona ossia il punto di rigetto. Punto del non. Punto di distrazione». La normalità di Daniel Paul Schreber non regge. Questo bell'uomo, quasi cinquantenne, presidente della Corte d'Appello di Dresda, che si vuole trasformare in donna, non è neanche ridicolo, è nella parodia estrema, è nell'inassumibilità della donna che sta come travestita di Dio, ovvero la donna divina. La donna fatale. La donna di ogni attrazione magica e ipnotica. La parodia di Schreber, giurista, è l’asterisco dell’esigenza della repubblica dei cittadini, senza più pena e senza più penitenza.

Qui conta del punto di rigetto e del punto del non, dei quali forse non interverranno altre precisazioni. Ponendo il non come “non” dell'avere e non dell'essere, nelle funzioni, e ponendo il punto nella distinzione. A cinquant’anni e più dalla lettura del testo di Schreber (in questo libro incontreremo a proposito il capitolo “La droga del presidente”) la parodia immunitaria sfata la credenza nell’eterno femminino, in Sophía, nella Sfinge. Schreber, la parodia: fa la donna dinanzi allo specchio nella dissipazione stessa della presunta incarnazione.

«In quanto dimentica, l'isteria parla senza ragione.» Questi aforismi, lungo l'elaborazione, si aprono in altre vie, nell'estrema precisione linguistica dei lessemi: isteria, dimenticanza, parlare, ragione. È per l’incompletezza dell’atto che nel suo pleonasmo l'elaborazione non è mai completa e ha sempre nuovi slanci, nuove sorprese, nuovi fiori del tempo e dell’Altro. Allora, l'isteria parla? C’è l’isteria che parla con ragione? Se è parodia l’isteria non parla. L'isteria parla?

I quattro discorsi nell’elaborazione della prima fase sono quattro modalità impossibili di parlare la parola e di parlare la lingua. Quattro presunzioni intorno alle categorie dell’uguale e alle modalità soggettive: volere, potere, dovere, sapere. La paranoia parla? Moi, la vérité, je parle ?  Imparlabile la parola e inassumibile una verità come causa, una verità che gli esperti certificano come psicopatologica e criminologica. Eppure evitare la parodia non sfugge alla parodia. E ciascun enunciato è alla portata intellettuale della cifrematica. Nessun mistero e nessuna mistica. Mystes, l’iniziato, tiene le labbra chiuse. Questo è l’inghippo. La bocca chiusa, le labbra chiuse non chiudono la questione, non spengono la vita per la moratoria generale, fra mobilitazione totale e surplace.

Senza la ragione sufficiente e senza la ragione sociale di “presidente”, Schreber non si nomina e comincia l'avventura, la lettura, l’analisi: Il carosello di esperti, di colleghi, di non colleghi, il diritto, la teologia, gli dei, il doppio dio, i raggi, le anime esaminate, i barriti, le vagine del cielo, gli uccelli miracolanti.

Per Schreber emerge la nominazione, e nell’atto intende. Non può intendere da presidente della Corte d'Appello, e tuttavia sfrutta il suo sapere giuridico per poter proseguire nella sua linguistica singolarissima. In che senso lo sfrutta? Per uscirsene dall'ospedale psichiatrico dove si è auto incastrato, quasi, per autofagia da presidentismo di Corte d’Appello penale e penitenziaria, lavora affinché sia riconosciuto che ha il cervello per gestire i suoi beni. Parafrasando Kafka: Schreber se ne va, andandosene.

La psicanalisi qui è ancora la traversata. Il discorso psicotico si articola nella traversata dell'isteria. Che ne è oggi della traversata dell’isteria?  La repubblica dei soggetti è il trofeo e il bottino delle democrature e delle dittature. L'isteria è resa inattraversabile, si diffrae in mille rivoli e sparisce dal manuale medicologico. Il discorso psicotico è confinato nella sua algebra e nella sua geometria, e così agisce e oscilla fra l’omicidio e il suicidio. Le guerre arcaiche sono questo discorso della morte e del nulla. Distruggere per costruire.

 

«In quanto dimentica, l'isteria parla senza ragione. E a nulla vale installarvi un individuo attraverso le motivazioni psicologistiche». Non è qualcuno che dimentica, non è un isterico o un’isterica che dimentica: è posta la questione della dimenticanza.  

Si apre un varco incolmabile, altri laboratori s’instaurano, dove la parola è sogno e dimenticanza. La dimenticanza trova la sua struttura: non c'è soggetto della dimenticanza. E le motivazioni psicologistiche? La motivazione e le sue modalità? I motivi diventano motivazioni, le norme diventano normazioni, le regole diventano regolazioni. Di cosa? Della parola convertita in discorso della morte e del nulla.

«A torto la psichiatria presuppone l'irresponsabilità nella psicosi. Irresponsabile infatti è solo l'isteria». Schreber non si rassegna, non si arrende alla presunta soggettività sociale, alla quale sono appesi famiglie e gruppi, individui e collettivi. L’ipotesi demonologica, non solo genealogica e archeologica, è irrisa dal presidente della Corte d'Appello Daniel Paul Schreber.

Schreber ottiene la libertà epistemica, pubblica, manifesta. Ma rimane un'irresponsabilità ipostatica, mentre invece affigge un'irresponsabilità epistemica, quindi è un gioco tra i livelli, tra il livello superiore e inferiore, tra l'episteme e l'ipostasi, ma l'ipostasi irride la responsabilità perché la responsabilità soggettiva, sociale, morale è ciò a cui occorre attenersi. Responsabilità di quell'arcaismo che gli fa scimmiottare l'irresponsabilità, che non è né la responsabilità né l'irresponsabilità. La responsabilità è della legge, non è di un soggetto.

«Irresponsabile infatti è soltanto l'isteria». In questo senso è un'irresponsabilità di mascherata, di sistema:  è l'asterisco della responsabilità nella parola, questa è la traversata isterica, non è che non la deve attraversare, non è che la deve mantenere, allora la traversata è il gerundio della vita, nel gerundio della vita l'irresponsabilità, un fantasma di irresponsabilità è l'asterisco della responsabilità. Nell'elaborazione quel che si coglie è la responsabilità della parola, nessuna idea di questa responsabilità, ma si coglie nell'itinerario. Come si coglie? Negli enunciati e nell’enunciazione.

L’isteria «non risponde di niente, non si impegna per nessuna copulazione, non sostiene la coppia». Da qui i disamori dell'isteria che se ne vanno con gli amanti, ma solo perché la coppia non tiene. C'è un accoppiamento in corso, c'è un erotismo in corso e l'isteria che ride. È interessantissimo. C'è chi ammazza l'irrisione, e questo è un risvolto sociale oggetto di tante attenzioni e di infinite incomprensioni, al punto che c'è chi si batte per la sostantificazione di queste dicotomie, oppure per la soluzione di spirito, allora la metà affettività e la metà aggressività si sommano in uno spiritualismo in cui anche il matricida trova le sue soddisfazioni ammazzando “solo” le madri in un videogiochi. Sono idiozie apparentemente complete, che basta un gesto per instaurare l’analisi. «E della solennità della scena avanza soltanto una parodia, nel corso della fantasmatica che ruota attorno a tale scena».

Parodia è un lessema essenziale nell’analisi attuale, eppure ha cinquant’anni e più di elaborazioni.

«Nel corso della fantasmatica che ruota attorno a tale scena». La fantasmatica ruota, prendiamola alla lettera, la fantasmatica ruota, la fantasmatica è nella circolarità, la fantasmatica è lineare, circolare, quadratica, sferica, cubica e può circolare con l'inversione interna tra la banda di Möbius e la bottiglia di Klein, e esistono anche altre superfici impossibili, la superfice di Boy e l’asfera o piano proiettivo. La “fantasmatica che ruota attorno a tale scena”: quindi la scena della scena è la scena della circolazione e vige l'obbligo di circolare. L'idea della scena forza tale scena in una liturgia e ne risulta obbligatoria l'esecuzione, che è per l’appunto dettata nell'enunciazione della scena. Sorgono così gli ingranaggi, i macchinari, le ruote, gli assi di trasmissione, i marchingegni, le ripetizioni dello stesso allo stesso, attraverso lo stesso, come nelle impalcature delle nevrosi, delle psicosi, delle perversioni e di tante altre dottrine religiose e dottrine militari.

«Il modello risulta distorto rispetto alla meta», ma qui la meta è pensata, il modello è pensato «con un ripiego del fantasma sul dire per una contraffazione del detto, per un intradetto». Per un intradetto il modello risulta distorto rispetto alla meta, con un ripiego del fantasma sul dire. E questo ripiego del fantasma sul dire, che ripiego è? Per essere un ripiego è tolta la piega della parola, e non solo: è tolto l’avvolgimento del mito, è tolto il pleonasmo da questo dire. E il detto è il dire senza il pleonasmo, al netto del pleonasmo.

Ancora. «Per una contraffazione del detto, per un intradetto»: il modello risulta distorto rispetto alla meta, sì, il modello non raggiunge la meta, la meta è l'ipotesi dell'avvenire, che forse è passato, sempre in modo diametralmente opposto. C’è qui fa così per riuscire e poi ne risulta la negazione assoluta della riuscita. Perché? Perché l'idea dell'avvenire è senza il tempo. È tolto il tempo per avere un'idea dell'avvenire e allora cosa ne è del passo? La sospensione del passo come si chiama? Paralisi. E come fa un paralitico a proseguire? Non prosegue.

«La parodia produce la sproporzione dell'immagine di ciascuna mimesi». La mimesi sfata il mimetismo: è la parodia, l'inscenazione dell'isteria, che non riesce. È la chance della traversata. Il passaggio è molto denso. E in questa densità ci sono anche altre vie da imboccare. Ciascuna volta c'è un’esigenza di analisi e di laboratori. Ciascuna frase richiede laboratori, con altre ricerche, altri approdi. Antichi e nuovi libri da leggere.

Ci sono dettagli essenziali, che richiedono ore per la loro scrittura dell’esperienza. Questione di un'esigenza introdotta dalla parodia che produce la sproporzione dell'immagine in ciascuna mimesi. La parodia che produce la sproporzione non sottostà alla morale. L'etica non è soppressa: uno non è uno, perché il nome funziona: questione di sintassi.

«La parodia produce la sproporzione dell'immagine in ciascuna mimesi, posta al di qua della morale, non governata dall'ontologia», non ordinata dalla presunta logica dell'essere, perché la logica dell'essere è senza il non dell'essere. È la logica dell'unico. L'unico è logico, infatti va alla guerra e mentre fa la guerra contro l'Altro, fa la guerra contro di sé: nel mentre divora si divora.  La parodia è «aperta a un godimento improprio e senza merito». È il godimento originario, il godimento della parola, il godimento di questa sproporzione, che non ha soggetto. La parodia produce la sproporzione dell'immagine: è un'immagine inimmaginabile, “prodotta” aperta allo svolgimento della parola. Nessuna immagine fuori della parola, a disposizione dei discorsi sul potere delle immagini. La parodia «produce l'inadeguamento e l'intervallo della sostituzione». Fra la sostituzione sintattica e la sostituzione frastica, nell'intervallo non è questione di sostituzione pragmatica, sarebbe il tabù del fare e di altri suoi corollari. La parodia produce, non toglie tempo, non toglie l'intervallo, non toglie l’Altro. Nessun adeguamento del sé all’Altro e viceversa.

Qui è «l'intervallo della sostituzione, in un processo di condensazione di cui la similarità fa il contrattempo». È in gioco un intervallo sintattico, questione di scansione e di una funzione che non è piena, non è completa, perché è una condensazione originaria. La serie dei nomi non è seriale e non vi regna la similarità. Il simulante, il sembiante non è mai tolto: è la condizione delle dimensioni, del due e delle altre aritmetiche. Il processo di condensazione insiste sulla questione del nome, della nominazione, nonché sulla dimensione di materia.

[À suivre…]

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“Solitudine d’Israele” di Bernard-Henri Lévy