L'amico immaginario
(L'utilità del non essere)
Questa notte ho fatto un sogno. Passeggiavo lungo il Corso affollato di Trieste. Insegne, tavolini all'aperto, gente seduta a consumare e a conversare. Ero giovane e mi sentivo felice. All'aperto, vista la stagione, l'aria era dolce, appena soffocante. Procedevo di buon passo. A un tratto vedo venirmi incontro un vecchio, non molto alto, un po' curvo, un po' insaccato nelle spalle, ma ancora voglioso di essere svelto; il naso grosso, un po' appiattito un po' squadrato, con radi capelli bianchicci riavviati all'indietro e un leggero sorriso sottinteso, ma senza insistenza. Non lo avrei neanche notato, forse, se non per il particolare degli occhi, scuri, vivacissimi, lampeggianti come semafori dietro le lenti degli occhiali, e molto più giovani della sua età. Per il fatto poi che aveva qualcosa per me di molto familiare, come fosse un parente lontano (assomigliava a zio Alfredo, un fratello di mio nonno), eppure ero certa di non conoscerlo. Arrivato alla mia altezza, il vecchio mi afferra un braccio come se non volesse lasciarlo più, e dice:
– Che piacere incontrarti! E' da tanto che non vengo nella mia città. Mi sono deciso solo ora perché volevo tornare dove sono nato e dove ho vissuto un grande amore. Mi sono deciso perché alla vecchiaia si deve contrapporre un ritorno controcorrente, com'è degli storioni, non a branchi ma isolatamente, volonterosamente, fino all'origine della propria vita. Ma adesso mi sento perso. Non riconosco più le strade né i negozi né la gente. Non mi trovo più qui. Non conosco più nessuno, sono rimasto solo. Anche la Ljuba è da tanto che non la vedo. Almeno ho incontrato te!
– Ma io non la conosco! E poi chi è Ljuba? E lei... lei come si chiama?
– Mi dài del lei adesso… davvero non ti ricordi? - mi risponde il vecchio con aria addolorata. - Io sono il tuo amico Bobi. Abbiamo passato tante ore insieme. E prima ancora sono stato amico di tuo padre, un ottimo amico. Tu e io, comunque, ci siamo conosciuti nel 1965.
– Come posso ricordare, in quell'anno io sono nata...
– E io sono morto!
Nero.
Antefatto
Per me è tutta un'altra storia. Se ripenso agli anni in cui ho goduto della compagnia di un amico speciale, vedo giallo. Il giallo è un colore allegro, c'è sempre nelle camerette dei bambini, anche se giallo è pure il colore dell'abito delle vedove in Africa. Insolito, anticonformista, di gran carattere, che non passa inosservato. Fuori dal coro. Un punto esclamativo. Giallo è anche l'orlo della fiamma che si alza. O si ama o si odia. O ci si avvicina sprezzanti del pericolo o ci si ritrae spaventati. Ecco, se devo raccontare di un amico speciale, che ha influito sulla mia crescita suscitando curiosità e poi amore per la lettura, quello con cui non ho mai litigato, quello che mi ha accompagnato negli anni belli, quello a cui ancora oggi penso, vedo letteralmente giallo. Giallo come un limone. Come un acchiappamosche. Come un canarino. Come la mia gonnellina preferita stile hawaiano. Come i pulcini che la Iole, la nostra “donna di servizio”, mi aveva regalato, facendo infuriare mio padre. Giallo come un uomo tutto giallo.
Scena prima, l’uomo giallo.
Una bambina sola. Nel senso: una bambina che si sente sola. Càpita a tanti. Probabilmente ai più. Normale, fisiologico. Una bambina abbastanza impopolare fra i coetanei che perciò preferisce starsene alla finestra. Quella bambina guarda il mare, che però è lontano e a volte minaccioso. Allora si rivolge al cielo, che spesso trova basso, con le nubi che procedono accoppiate come buoi.
E poi, un giorno come altri, poche parole di suo padre, buttate là a tavola, la sbalordiscono e aprono un altro scenario. Lui, chissà come e perché, sta raccontando di avere conosciuto, anni prima, un uomo tutto giallo. Incredibile, mai sentita una cosa del genere! La bambina drizza le orecchie. Papà dice che l'uomo giallo vive di libri, nel senso che proprio se ne nutre, non mangia come tutti noi, aggiunge. Lo ha conosciuto, quasi per caso, a Venezia, in una giornata grigia come sono spesso le giornate nelle città che non amano i colori. In quella città l'uomo giallo soggiorna spesso, in una deliziosa pensione old style con i vetri piombati alle finestre, dove alloggiano quasi esclusivamente vecchie signore inglesi che, come angeli aggrinziti, salgono e scendono per le scale. Angeliche sotto i capelli bianchi, nei loro pulloverini chiari, nella loro compostezza che ha superato l'insofferenza della castità. E forse a causa dell'atmosfera grigia e soffusa, come di satin, che circonda eternamente Venezia, per smorzare il suo giallo fuori dal comune e non farsi notare troppo, l'uomo indossa un impermeabile verde scuro con berrettino coordinato. E ha una cartella scura sottobraccio, che porta sempre con sé per annotarvi le coincidenze, quelle associazioni di fatto e di pensiero che intrecciano il tessuto del destino. Papà racconta ancora di avere pranzato con lui e la sua amica inglese Ljuba, che invece indossa un impermeabile bianco trasparente per non smentire la sua origine turistica di inglese, appunto. Lei è alta, magra, fine, con un naso aquilino e la carnagione sorprendentemente scura, gli occhi ancora più scuri che a lampi virano al viola, lunghi e un poco truccati dietro le lenti azzurrognole. Di notevole fascino quando parla. E ancora, che a pranzo la conversazione ruota intorno a tre argomenti: la magia (sembra che Ljuba la pratichi), i gatti (il gatto della trattoria bianco e nero l’aveva morsa a una mano due anni prima e da allora la mano le si gonfiava ogniqualvolta vedeva un gatto), le coincidenze.
Più il padre ne parla, e con entusiasmo - lui sempre così misurato - più racconta aneddoti curiosi, più la curiosità cresce. La bambina vorrebbe sapere tutto.
– Papà perché vuoi così bene a quell'uomo tanto strano?
– Ecco, per risponderti, adesso ti insegnerò cos'è la riconoscenza. La riconoscenza degli animali, cioè a vita, non quella degli uomini che è sempre mista a fastidio e persino all'astio. E' stato lui a convincermi che potevo diventare uno scrittore vero, uno scrittore che ha qualcosa da dire, e come si può non si può non amare chi vede al primo sguardo la nostra dimensione vera?
La bambina lì per lì non capisce, rimane senza parole. Ci pensa e ci ripensa. Poi le balena un'idea. Che vorrebbe vivere sempre con la gonnellina hawaiana addosso e a scuola dicono che non si può; che vorrebbe sempre disegnare e cantare, ma dicono non si può. Che la cosa più bella sarebbe poter fare quello che ci rende felici e tutti stanno lì a convincerci che non si può. La cosa più bella che possa capitare: vivere secondo la propria vocazione. Forse l’uomo giallo con l'impermeabile verde ci era riuscito. E la sua magia è stata convincere papà che questo era possibile, e senza controindicazioni. Anzi. E così trasformare l'insoddisfatto impiegato Stelio Mattioni in uno scrittore, per di più pubblicato. Come nella fiaba di Cenerentola, la zucca che si trasforma in carrozza. A quale bambina non piacciono le fiabe?
Scena seconda, l’amico immaginario.
Da quel giorno la bambina va in cerca di notizie, anche lei, come suo padre, vuole il suo uomo giallo. Chiede, indaga, cerca. Racconti, episodi, notizie, lettere scorse di nascosto si sommano. La fantasia della bambina monta, smonta, crea un mito. Gli ingredienti ci sono tutti, un uomo che mangia libri è una cosa inaudita. Un uomo giallo che fa le magie. La bambina a quel punto più di tutto avrebbe voluto incontrare davvero quest'uomo, ma le dicono che non poteva, perché l'uomo tutto giallo è morto (davvero era potuto morire, come tutti gli altri?) nello stesso anno in cui lei è nata, lui a luglio, lei a dicembre. Eppure, da quel giorno, per tanti e tanti giorni a venire, da far credere che era per sempre, si è seduto a tavola con lei. Hanno giocato insieme, hanno parlato, si sono fatti i dispetti. Ma quando c'era da essere seri lui l'ha anche consigliata, spronata, sostenuta, lusingata. Le ha suggerito che i libri si possono mangiare, come il corpo di Cristo, nel caso in cui si diventa buoni cristiani; se si mangiano libri, ma è meno certo perché occorre metterci del proprio, si può diventare buoni scrittori.
Gli psicologi direbbero un amico immaginario, ma, possiamo giurarci, reale più del reale.
Il suo nome era proprio Bobi.
Scena terza. Sulle orme dell’uomo giallo.
Da quando papà è ufficialmente uno scrittore, c'è una stanza a casa con la porta sempre chiusa. Lì si rintana a scrivere dopo avere lavorato otto ore in ufficio, ogni sera, prima di cena. Accesso vietato ai bambini. I quali, per il divieto e a caccia di segreti, appena la sorveglianza si allenta, ci sgusciano dentro.
La bambina in particolare, irresistibilmente attratta da quella stanza. Una piccola magica stanza arancione, stracolma di libri, molti ingialliti dal tempo, con le copertine macchiate di marrone come le uova di colombo, e gialli anche per nicotina delle troppe sigarette fumate in loro presenza. Uno scrittoio con le zampe di leone, che a lei pare immenso, su cui troneggia una Olivetti 22 che batte le “a”, le “e” e le “o” tutte piene, e poi pile e pile di fogli coperti da una scrittura minutissima accatastati anche sul pavimento. Tanto che per spiegare perché suo padre fosse così magro si era convinta che fosse una decisione nata dalla necessità di passare per le strettoie di quei totem di carta. Ma questo è marginale per la nostra storia. La bambina più di tutto sapeva che lì avrebbe trovato indizi su Bobi.
E infatti... una mattina di luglio ecco materializzarsi un tesoro sotto forma di cartelletta, anch'essa arancione. Dentro, tante lettere. Trattenendo il fiato, ne apre qualcuna e comincia a leggere qua e là, non c'è troppo tempo, non deve farsi sorprendere. Le date, prima le date.
9 III 60; 25 10 60, scritte proprio così, con le variazioni... ma di certo, l'anno in cui Bobi era entrato nella loro vita era quello. E poi tanti nomi di città, Roma, Torino, Milano, Londra, Venezia, Pescara, Pesaro, Varese, Bassano, I Ronchi a Massa, Toscana, Merano, Stuttgart, Courmayeur... Bobi viaggiava molto, ancora più affascinante per lei che sognava ad occhi aperti.
Certe frasi lette al volo:
“Per il momento non so nulla, so soltanto che dovrei incontrare la Ljuba a Merano fra una decina di giorni. Un saluto affettuoso e molto in fretta (rifugiato in una casa in periferia contro una fiera artistica di via Margutta che le consiglio come sfondo per un suo racconto)”.
“E' stata un'estate piuttosto faticosa cominciata a giugno con un incidente di macchina, e finita con un distacco della retina della Ljuba, conseguenza ritardata dell'incidente. E' stata operata; l'operazione è andata bene solo in parte (un lato della retina ha aderito, l'altro no), c'è stata la necessità di un nuovo intervento, così andrò a Londra prima che esca dalla clinica. Tra questi due estremi c'è stata una spola ininterrotta e molto estenuante tra Courmayeur, Milano e Torino, durante la quale ho rotto definitivamente con Einaudi, in pieno scirocco torinese. Per finire in una Milano post ferragosto micidiale, da dove sono andato, finalmente, ai Ronchi, per rimettermi e dove invece sono ripiombato in un nuovo scirocco, finito il quale mi è capitata la notizia della Ljuba”.
“Il suo libro, in generale, mi pare vada molto bene. Non so se sia stato giusto che Einaudi pubblichi tutta quella roba in una volta e forse sarebbe stato meglio che il tempo che le ha lasciato fosse stato per rimettere a posto due racconti al massimo. Mettere in ordine significa ripensare, lentamente, episodio per episodio, e poi guardare con la lente d'ingrandimento capoverso per capoverso, frase per frase, parola per parola. Non la consideri una critica sostanziale. La sostanza c'è, gliel'ho confermato fin dal principio. Ma è logico che una persona che ha scritto sempre solo per sé debba farsi una nuova mano. Il talento, la visione immediata, la freschezza sono la cosa essenziale, altra cosa è il lavoro a freddo, meticoloso che tutti hanno dovuto imparare faticosamente”.
“La Ljuba ha cambiato casa e benché a pochi minuti dalla metropolitana, sta in campagna, in pieno silenzio. Passerò l'estate a Londra”.
(Londra, e questa casa, torneranno nella nostra storia).
“Ho avuto un periodo di paralisi insolitamente lungo e acuto, persino per le mie abitudini. A Roma, non sono stato in grado di scrivere una lettera per mesi”.
Che vita interessante e avventurosa. La bambina sgranava gli occhi, non capiva tutto, ma intuiva che con ogni probabilità Bobi sapeva di suo padre, di lei e del resto degli uomini molto più di quanto loro stessi sapessero. E che si sentiva libero di dirlo.
Scena quarta. Irrompe l’imprevisto.
Le ultime lettere nella cartelletta. Datate per lo più 1965 e con la firma di Ljuba.
30.7.1965
“Caro Mattioni, sono arrivata ieri sera da Londra e voglio avvertirla subito di quanto è accaduto. Bobi è morto due giorni fa improvvisamente e probabilmente senza soffrire. I funerali avverranno stamattina – fra pochi giorni ritornerò a Londra.
Sua Ljuba”.
Bobi è morto solo, in una provvisoria camera d’albergo a Milano - la bambina chiude gli occhi e cerca di immaginare.
Si è sentito dentro uno scoppio, all'altezza del cuore. Non capiva... o meglio, era pieno di un liquido caldo che per la prima volta gli toglieva ogni curiosità, che gli procurava un dolce sfinimento e, senza che si rendesse conto perché, si trovò disteso nel letto a guardare un soffitto dipinto, incredibilmente azzurro. In quel frangente non riusciva più a pensare a nulla. Perché chi avrebbe potuto, non gliene ha dato il tempo.
Lui che aveva scritto “morire appagato e curioso”.
La bambina cerca di immaginare anche il dolore di suo padre, pronta una lettera per Bobi da spedire proprio quel giorno. E di sua madre, che aveva pianto, come fosse un parente.
Ancora Ljuba:
“Caro Mattioni, ecco una cosa che Bobi aveva sempre con sé, anche viaggiando. La mando esattamente come l'ho trovata, ho tentato di pulirla un po' ma puzza ancora di muffa. Spero che l'odore sparirà quando la si mette nel sole per mezza giornata. Tutto questo viaggio è un bruttissimo sogno dal quale purtroppo non c'è uno svegliarsi. Ho trovato molta roba, soprattutto disegni importantissimi. Sarò a Milano verso la fine della prossima settimana, per qualche giorno soltanto.
E' la prima volta in vita mia che non sono affatto padrona di me stessa. Non voglio, assolutamente non voglio andare in via Margutta e infatti non ci sono andata fino adesso però dovunque vada, senza che io sappia come, mi trovo a cinque passi da via Margutta.
Sua Ljuba”.
Ultimissima lettera di Ljuba, datata 3.1.66, c/o Frau Zehender, Christophstrasse 9, Stuttgart (Germania).
“Sto qui dai cugini di Bobi che non conoscevo finora e che sono di una tale gentilezza e cordialità che mi sento a casa mia – in Germania, s’immagini! Tutto è pieno di fotografie di Bobi da bambino. Lei mi racconterà cosa significano ricordi personali per lei e io le racconterò quanto è importante che la sua bambina si chiami “Chiara”.
Sua Ljuba”.
La bambina sapeva bene di cosa parlasse. La cartella di pelle che papà custodiva gelosamente, con dentro la penna di Bobi, alcune cartoline e la sua carta da lettere.
Scena quinta. La cartella di Bobi.
Dunque, Ljuba manda a Mattioni la cartella di Bobi. Quella che aveva con sé anche il giorno del primo incontro, quella da cui mai si separava. Mattioni, in risposta scrive:
“Ho ricevuto la cartella di Bazlen, resterà nelle mie mani come sta, continuerà a viaggiare, a restare un oggetto che ha una relazione costante con la vita, non dico con la mia, ma con la nostra. Un sentito grazie cui aggiungo quello di mia moglie e dei miei figli, in particolare della piccola Chiara. E infine mi è venuta un'idea: chissà se...”.
La cartella è ancora conservata con massima cura nello studio del papà. All'interno, le cose che appartennero a Bobi. Alla bambina, che tale non è più, càpita ancora di prenderla tra le mani, di aprirla, di sfiorarla, di odorarla. Non sa più di muffa. La vita è sogno, come diceva Bazlen. Ma ci sono oggetti che travalicano la loro utilità di oggetti. Toccando la cartella, un poco consumata ai bordi, si sente il sale, il condimento, qualcosa in più, sicuramente. Anche se Bazlen è al di sopra dei luoghi e degli oggetti e anche se la sua vita è un capolavoro del non essere: è nella memoria, e la memoria non va ingannata con le proiezioni e le due dimensioni. Va riplasmata nella sua interezza tridimensionale. La sua cartella, ogni volta, ricorda che Bobi Bazlen è, come la vita è.
Scena sesta. Londra, molti anni dopo.
Metà degli anni Settanta. Arthur Road è una via lunghissima, nei sobborghi di Londra (Wimbledon), da percorrere tutta per fare visita alla Ljuba. Una collina tutta verde su cui non arriva la nebbia che opprime la città. Ci vogliono tre telefonate da una cabina pubblica per stabilire un contatto e concordare l’ora dell’arrivo, nelle prime due linea muta da almeno una delle due parti. Quando finalmente si arriva all’indirizzo conosciuto, al “suo” numero civico, ecco uno steccato di lamiera ondulata, dietro al quale c’è una voragine. Cosa vuole dire: che la Ljuba è sprofondata insieme alla sua casa? Che la voce sentita al telefono veniva da sottoterra? Una premonizione? Una coincidenza? Sarebbe da fare gli scongiuri. Ma poi invece la casa si trova, una casetta di quelle tipiche delle periferie inglesi, con il suo ordinato giardino, nel quale tante volte si è visto fotografato Bobi. L’ora dell’appuntamento è passata da un pezzo. Ma la Ljuba è una signora fine, ha il self control di almeno tre razze tra cui non c’è quella italiana, e aspetta nel suo salotto ormai quasi buio, con davanti la teiera e uno di quegli assurdi dolci inglesi.
Scena settima. Epilogo.
Il sette non è un caso. E’ il numero della completezza nelle filosofie orientali. E sette sono i doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio. Il 7 era il numero sfortunato del poeta Saba (che si rifiutava di poetare in quel giorno del mese ed è morto nella stanza numero 7 della clinica San Giusto a Gorizia) e invece, esteso anche al 17, il numero fortunato di Mattioni, a suo dire (il giorno di nascita di mia madre, il giorno del loro matrimonio, il giorno dell’esito fortunato di un esame importante, e altro). Chissà cosa pensava del numero sette Bobi, che un poco superstizioso era.
Quella bambina non è più una bambina da un pezzo. Oggi, guardando dalla finestra, il cielo e le colline in fondo sono blu, in gradazione. Il blu è profondo, riposante, quasi il contrario dello squillante giallo. Ma gli anni della formazione, alla ricerca di Bobi, che sapeva far perdere le proprie tracce perché mai conclusivo, sono stati determinanti. Oggi rimane un interrogativo. Perché si scrive? Esclusi i casi di chi scrive per quattrini, per ambizione, per fama o per diffondere una religione o una morale… forse perché, come Bobi ha suggerito, non avendo scopo vivere una vita come la nostra, reale solo perché l’abbiamo organizzata in modo che ci sembri tale, e sacra perché abbiamo inventato di essere figli di Dio, la speranza è lasciare una scia come la lumaca, sufficiente a far capire, chissà quando e chissà a chi, che il nostro passaggio non è stato del tutto inutile; o per cercare di scoprire qualcosa, ben sapendo che non si scopre nulla. Bobi non ha avuto una casa, non ha avuto una famiglia, non ha avuto figli, non ha lasciato un libro compiuto. Restano le lettere, scritte a volte a mano a volte a macchina, senza uno stile unico, procedendo per libere associazioni. Fermare sulla carta l’urgenza del momento, ecco cosa gli importava. Il capolavoro del non. Irreale, antimaterico. Eppure, eterno. Fondamentale. Infatti, ha inciso nella vita, nel cervello, nel cuore, nelle opere di tanti. L’utilità del non essere che apre le strade dell’infinito attuale. Intraprenderle senza fardelli, scalciando, questo è l’eredità intellettuale, questa la magia più grande…
(Testo pubblicato su “Il Piccolo di Trieste”)