Amalia Guglielminetti. Elegia del cuore
Dal laboratorio poetico di Maria Grazia Amati risalta anche la collana “Donne in poesia” che cura per Bertoni Editore. Né donne illustri né donne non illustri, ma donne in poesia che furono illustri. Interessante non è chiedersi le ragioni del cono di luce e del cono d’ombra che la ristretta cerchia dei poeti ha riservato loro, ma di approdare al giardino della loro scrittura. E qui conta L’Insonne, Fiabe in versi e altri scritti (2022).
L’Insonne (1913) è stata la terza e ultima raccolta di poesie di Amalia Guglielminetti (1881-1941), dopo Le vergini folli (1907) e Le seduzioni (1909). Vari sono gli altri registri di scrittura impiegati: dalla critica letteraria agli epistolari, dalle novelle al teatro…
Se il corpo fosse inanimato, l’anima ne sarebbe l’animatore e il portatore. E i portatori fra un porto e l’altro hanno doganieri che verificano lo spirito di conformità al sistema, che non tollera gli asistematici e i non sistemati. L’anima è l’idea dell’incarnazione della volontà dell’Altro. Idea dell’idea che è sempre doppia.
Amalia Guglielminetti coglie nel suo caso la duplicità dell’anima, del soggetto portatore, che in comunità sancisce il comportamento, al quale ognuno dovrebbe attenersi. L’anima è l’idea impossibile sostitutiva del corpo e della scena. Infinite le domande sul corpo e sulla scena che punteggiano le poesie di Amalia Guglielminetti. E questo è risultato e risulta ancora intollerabile per la dottrina del comportamento sociale che prescrive la liturgia e il cerimoniale del silenzio.
Le poesie non enunciano una misterica del doppio psicologico, anzi ne dissolvono il presunto ingranaggio della saggia e della stolta, dell’una e dell’altra metà uguali. Il principio di uguale è anche il principio dell’alternanza e dell’alternativa delle due parti oppositive e/o appositive della dicotomia sociale.
“L’anima duplice” è già nel ritratto fotografico della copertina del libro. La foto è d’epoca. Non è la foto dell’era intellettuale. I cliché di donne ritratte in tal guisa sono innumerevoli. È la foto della donna di successo? E non è come donna di successo che interviene assumendone la maschera. Non è la dormiente incantata e affascinante che i “suoi” uomini incontrano: è l’insonne. Suo è il volto del ritratto di pagina 14. Bellissimo. L’era non è in alternativa dell’epoca e l’epoca mai rimpiazza l’era.
Non sta alla bella Amalia di risolvere i paradossi della società dell’epoca. E più che doppia la sua anima manca a se stessa. Più volte a processo per la sua scrittura non si lascia osservare dagli osservanti, inquisitori che partono dalla penitenza per abolire il senso di colpa, per salvarsi dalla loro vergona e dalla stessa brama per il corpo presunto senza cervello delle donne.
L’introduzione di Maria Grazia Amati offre in titolo una frase di Guido Gozzano: “Le donne non sanno scrivere”, frase a effetto, utilizzata come un “si dice” per mettere in risalto la scrittura autentica di donna Amalia.
“Una sfinge che non ha nome” o poesia etrusca, poesia non festiva, non comunitaria? Poesia che è gioco, danza, musica. E questo stupisce il piccolo Leopardi, il piccolo D’Annunzio, al secolo Guido Gozzano. È la poesia che impedisce che l’atto sia sottoposto all’eterno femminino, che non resiste alla sollecitazione della blasfema Amalia Guglielminetti troppo intellettuale per i dandy in carriera, nonostante la sua moda liberty parigina.
L’idea di sé, il rapporto di sé a sé, è nella circolarità, nel mimetismo sociale. Eppure la scrittura poetica disattende ogni mimetismo e la voce emerge senza popolarizzarsi, senza sottomettersi alla vox populi e nemmeno alla vox dei nel formato dell’olimpo sociale e politico, ove apparentemente Amalia Guglielminetti perde la partita per anomalia, per dissidenza, per blasfemia. L’accusa di oltraggio al pudore è ridicola, calunniosa, infamante. È un reato impossibile: è la sua intellettualità, la sua linguistica che non è tollerata. È ilare, ironico, il testo oggetto dell’accusa, come indica la curatrice che lo propone in appendice.
Non c’è poesia ermetica, poesia misterica, come pare una tradizione del novecento ancora in corso. Quel che corre è il discorso, anche nella lettura di Lacan quale disco orso corrente (discours). La bestia che corre: bestialità della poesia corrente. Mimetismo e automaticismo sono le due facce dell’animalismo. L’animale poetico – il poeta innato e il poeta naturale – è l’uomo dalla poesia ideale, poesia negata, poesia copiata. Per Borges è la poesia di Pierre Menard, che riscrive il Don Chisciotte uguale e identico ma con tutt’altro significato. E ancora prima della poesia la cancellazione riguarda il nome Cervantes.
Il poeta che si atteggia a poeta è smarrito. Se Gozzano è il piccolo Leopardi è smarrito e va in oriente per orientarsi. Se Amalia Guglielminetti ha in Francesco Petrarca un riferimento occorre reperirlo nel testo. È nella senilità dell’amore? L’ultimo petrarchista è Italo Svevo con La coscienza di Zeno? La pena, la vergogna, l’amore ultimo prima della vecchiaia quale tomba della poesia? Perché Amalia smette di scrivere poesie? Lei smette quando Petrarca comincia con la vecchiaia? È ancora un tabù la vecchiaia, non solo per le donne.
L’enigma non ha risposta: i risultati stanno nella poesia e non nel sociale, né quello della critica che la valuta come stereotipo femminile, né quello suo personale, non più di crinoline ma della nuova moda parigina, nella mascheralità inassumibile. Nessuno ferma l’oscillazione della maschera. Né la calunnia dell’una né l’oltraggio dell’altro. Il ricorso al tribunale è il pendant della pena, del breve sogno, il sogno ideale, penale. Il sogno non è né breve né lungo, mentre sembra finita la stagione degli amori, delle prove chiamate amore (Petrarca). Ma non esiste la prova d’amore e nemmeno la prova d’odio. Altra è la poesia. Sospesi gli orpelli sociali non resta che il testo, mai facile da restituire. “Un testo che resta appunto enigmatico”, come scrive Maria Grazia Amati.
Ancora un cenno alla poesia “Anima duplice”, dalla raccolta L’Insonne, fra “L’elegia” (del cuore che mai s’addorme) e “Il cuore d’acciaio”.
Io in me, non vista, porto un’altra diversa me stessa,
che mi veglia indefessa con sguardo e spirito assorto.
È una compagna attenta ch’ogni mio pensiero misura,
ch’ogni gesto con cura sagace analizza e comenta.
Due dissimili donne io celo nell’intima vita:
l’una folle e smarrita, l’altra cauta lucida insonne.
L’una che appare proterva, ma che s’abbandona e s’illude,
l’altra che in sé si chiude, spettatrice scettica e osserva.
Né l’una si rivolta all’altra e neppure le soggiace,
vivono quasi in pace unite la saggia e la stolta.
La stolta ombre accarezza per la via degli inganni e del male,
va l’altra a metà uguale, con fredda consapevolezza.
Due in una. Una in due. Fœmina duplex. La dicotomia sociale: due mezze vite che sommandosi nel doppio (Aristotele insiste nel dire che il doppio è il doppio di due metà e non dell’uno) non saranno mai l’unità. Interviene il “quasi”: «vivono quasi in pace”. La pace ideale è la guerra reale. È la tenzone d’amore in cui l’odio di sé avanza con i paramenti dell’amore di sé. È l’amore in pena e la pena d’amore, come nei primi lessemi delle costellazioni linguistiche del Canzoniere: il pianto, vana speranza, vano dolore, pietà, perdono, vergogna, pentimento, vendetta, punizione.
Più la vita di Amalia Guglielminetti è liberty e più è prigioniera: ci sono versi in cui c’è la scelta obbligata di liberarsi da un cruccio d’amore, anche all’istante.
La metà (eguale) idolo è folle, ingannatrice, malefica e l’altra metà (eguale) spettrale è saggia, onesta, benefica. Ma le due metà non costituiscono il doppio psicologico di Otto Rank, dal quale estrarre la decifrazione del mistero. L’una in sé aperta e l’altra in sé chiusa - la saggia e la stolta - sono ipotiposi, ossimoro, animale fantastico, ironia, beffa: modi dell’apertura dalla quale procede l’assenza di soluzione e quindi l’analisi. È questa analisi intellettuale che non tollera la società letteraria dell’epoca, che le ha confezionato un vestito non ancora dismesso.
È vignetta, pop art avant la lettre la conversazione fra il cuore d’acciaio e il cuore di carne: «Tu batti il Tempo uguale, io batto la Vita febbrile». C’è l’esigenza di un altro battito, un altro dibattimento, un altro dibattito.