Intervista a Marco Nicola

Marco, tu fai parte di una storica famiglia di restauratori piemontesi.

 

Sono nipote di Guido Nicola, il restauratore che ha creato un grande laboratorio nell’astigiano, ma anche molti altri membri della mia famiglia sono restauratori. I miei genitori, i miei zii, mio fratello, e andando indietro nel tempo anche il padre di mia nonna e i suoi antenati furono restauratori e pittori.

Mi sono leggermente discostato da questa linea perché sono un chimico. In verità, non me ne sono allontanato tanto perché mi occupo prevalentemente di materiali artistici. Inoltre anche mio nonno lavorava già con i chimici. Ho anche un antenato che era alchimista nel ’600 (cui mio padre è molto affezionato), e che ha creato la porta magica a Roma, si chiamava Borri. Questi i trascorsi della mia origine di chimico che si occupa di beni culturali.

 

Fra i libri che ho letto sul restauro e che mi sono piaciuti di più, ci sono quelli di Selim Augusti, che era un chimico. L’ho apprezzato molto perché ha compiuto un’analisi dei pigmenti in vendita all’epoca a Pompei, tuttora integri. Ne analizzò una campionatura. Una cosa incredibile. Ho cercato qualcosa della sua biobibliografia, ma è pressoché inesistente. I suoi libri, tranne uno, sono introvabili, spero che almeno nelle biblioteche si possa reperire ancora qualcosa.

 

Sì, ha fatto delle pubblicazioni sui pigmenti dell’antica Roma… È un autore molto importante, non recente, ma che rimane un punto di riferimento perché è stato tra i primi a fare un lavoro sistematico sui pigmenti dell’antica Roma.

 

Tu ti occupi soprattutto di pigmenti, hai qualche esempio da segnalare fra quelli a te più cari, esempi specifici di cui narrare qualcosa.

 

Inizierei da un pigmento in particolare, a cui sono molto legato. Proprio su un pigmento, infatti, ho conseguito il mio dottorato di ricerca nel 2019: l’azzurro egizio. Successivamente su questo tema ho lavorato anche in università, dove ho appena concluso un progetto e spero di avviarne altri in futuro. Quindi ho una grande esperienza su questo pigmento.

 

Ah, l’azzurro che hanno trovato anche a Pompei, solo che non lo chiamavano egizio.

 

Presso i Romani l’azzurro egizio era conosciuto come caeruleum, al pari di altri pigmenti azzurri, anche se Plinio nel Libro XXXIII di Naturalis Historia ci dice che il caeruleum Aegyptium era molto apprezzato, riferendosi specificatamente a quello che proveniva effettivamente dall’Egitto. Non solo hanno trovato questo tipo di pigmenti a Pompei, ma le nuove ricerche sull’azzurro egizio nascono proprio dagli scavi di Pompei. È un pigmento affascinante, e fu originariamente inventato probabilmente in modo casuale durante la fabbricazione del vetro o delle argille cotte invetriate. Si parla del 3500 avanti Cristo. Poi è stato utilizzato sistematicamente, più o meno dalla fine del terzo millennio a. C., quasi come unico azzurro del mondo antico, da tutti i popoli del Mediterraneo, e successivamente dell’Impero Romano ed oltre. È stato trovato perfino in Norvegia dove probabilmente è arrivato tramite scambi commerciali.

 

E, correggimi se sbaglio, era uno dei pochissimi pigmenti antichi davvero artificiali.

 

È considerato il primo pigmento artificiale in assoluto, in quanto ottenuto con una vera e propria sintesi da più componenti in giuste proporzioni. È per di più azzurro, e i pigmenti azzurri erano di fatto molto rari. Il suo nome egizio significa lapislazzuli artificiale, cioè un surrogato del vero lapislazzuli, la preziosa pietra azzurra importata dall’Afghanistan attraverso le rotte commerciali. Inizialmente, però, sia il lapislazzuli che l’azzurro egizio, non erano usati come pigmenti.

Gli antichi egizi producevano manufatti di azzurro egizio che sembravano fatti di lapislazzuli. Li usavano come gioielli e per i corredi funebri, poi hanno capito che quel materiale si poteva macinare e ottenere anche un pigmento. L’esempio più antico di azzurro egizio usato come pigmento è del 3250 a. C. circa, mentre le perline e i piccoli oggetti che simulano i lapislazzuli arrivano anche al 3500 a. C.

Da quel momento in poi, è diventato popolarissimo e già in antico fu chiamato azzurro egizio. Lo chiama così ad esempio Teofrasto nel suo De Lapidibus all’inizio del terzo secolo a.C.. Scrive che di κύανος (kyanos = azzurro) ce n’erano tre, quello della Scizia, quello di Cipro, (che probabilmente era quel pigmento che noi oggi chiamiamo azzurrite), e l’azzurro dell’Egitto, che a differenza degli altri era artificiale.

 

Devo aver letto da qualche parte anche il nome dell’azzurro nell’antica lingua egizia.

 

Nell’antica lingua egizia, non so la pronuncia, ma si scrive con due parole: hsbd, che significa lapislazzuli, seguito da iryt, che significa artificiale. In Mesopotamia, invece, era noto come uknû merku, che ha lo stesso significato. Gli egizi sono riusciti a fare questo pigmento che ha avuto un successo enorme e nel tempo la sua tecnologia di produzione cominciò ad essere impiegata anche altrove.

Nel primo secolo a.C. arrivò anche a Pompei. Lo racconta Vitruvio descrivendo con precisione questo evento: un certo Vestorio a Pozzuoli aveva impiantato una fabbrica di pigmenti importando la tecnologia da Alessandria d’Egitto. La zona di Pozzuoli fu scelta perché lì già si produceva il vetro. C’erano i materiali giusti, come la sabbia che arrivava dalla foce del Volturno, che aveva una proporzione corretta di silice e carbonato di calcio. Quindi hanno capito che quella stessa sabbia andava bene per fare l’azzurro egizio e ciò conferma che il pigmento era legato all’industria vetraria.

 

Però facevano anche altri colori… c’era il vulcano.

 

Sì. Forse il vulcano poteva anch’esso essere fonte di un ingrediente fondamentale: il fondente. Normalmente arrivava dai laghi salati dell’Egitto ma è presente anche in alcune fumarole. Il fondente serviva nell’industria vetraria ma non solo. Aveva, infatti, molti usi e rivestiva un ruolo chiave nella produzione dell’azzurro egizio perché permetteva di abbassare il punto di fusione della silice. Serviva anche per la produzione di un altro pigmento, ovvero il verde egizio, che era una variante dell’azzurro con una proporzione leggermente diversa degli ingredienti e prodotto a più alta temperatura. Recentemente ne sono stati studiati dei resti trovati in antichi crogioli presso l’area di produzione scoperta nell’antica città di Cuma (oggi Bacoli). 

 

Per quanto tempo l’azzurro egizio fu il più usato dei pigmenti azzurri?

 

Hanno incominciato a fare questo pigmento più di 5000 anni fa e proseguirono a produrlo per molti secoli fino alla caduta dell’Impero Romano. Poi, nel Medioevo, scompare, e non si sa bene perché. È uno dei primi misteri. Perché dopo averlo usato per 4000 anni in tutto il Mediterraneo a un certo punto si smette di utilizzarlo? È una domanda che non ha trovato ancora una risposta valida. Ho studiato personalmente alcuni degli ultimi affreschi in cui fu utilizzato l’azzurro egizio. Per esempio, è molto bello quello di Castelseprio in provincia di Varese, un affresco del IX-X secolo che è uno degli ultimi esempi noti.

 

Forse perché è poi stato sostituito dall’azzurrite che era il secondo colore rispetto al lapislazzuli?

 

L’azzurrite è un pigmento nettamente più scadente, molto debole, aveva il problema che non era stabile e comunque costava molto importarlo. Sarebbe stato più semplice utilizzare l’azzurro egizio, ciononostante a un certo punto la sua produzione viene perduta, non si sa bene perché. È possibile che essendo legato al vetro, abbia subìto la conseguenza della crisi della produzione del vetro intorno al settimo-nono secolo d.C.. La crisi della produzione del vetro fu probabilmente determinata dall’assenza di un ingrediente, il fondente cui accennavo prima. Il fondente era spesso costituito da carbonato di sodio, quello che oggi chiamiamo soda solvay. Per noi oggi è facile da reperire, lo troviamo al supermercato, ci sono aziende che lo producono, ma trovarlo allo stato naturale non era così facile, c’erano pochissime zone di approvvigionamento. Tra queste quella più importante era probabilmente la zona di Wadi El-Natrun in Egitto (wādī o uadi, ‫sono i letti dei torrenti), ecco perché questo materiale si chiamava natron.

 

Certo, è citato anche nella Bibbia.

 

Si usava anche come detergente e si trovava negli uadi o nei laghi salati, dove si prosciugano. Ci sono tre teorie riguardo alle cause della difficoltà di reperire natron durante la crisi della produzione del vetro: la prima è la più semplice ed è legata alle difficoltà sulle rotte commerciali, dovute alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. La seconda è un mutamento politico in queste zone, che sappiamo esserci stato, e cioè l’avvento dell’Islam e l’espansione degli Arabi che occuparono le principali aree di produzione del natron o le isolarono nel deserto con le conseguenti difficoltà di approvigionamento. La terza ipotesi è che vi sia stato un cambiamento climatico, perché si sa che nel sesto secolo vi fu la cosiddetta LALIA (Late Antique Little Ice Age) una piccola era glaciale innescata da una serie di eruzioni vulcaniche. L’evento estremo provocò un lungo periodo di freddo e pioggia che verosimilmente causò difficoltà nella raccolta stagionale del natron che dipendeva da laghi. Normalmente questi si ingrossavano nella stagione umida, e poi si asciugavano — e ciò permetteva di ottenere questo sale puro —, mentre con un apporto maggiore di acqua era difficile la separazione dal cloruro di sodio e la raccolta del natron o la sua qualità peggiorava notevolmente. Non sappiamo quindi esattamente i motivi della scomparsa ma, a un certo punto, intorno al VII-VIII secolo, l’azzurro egizio scompare quasi completamente e riemerge solo occasionalmente in epoche successive. Il caso più famoso è quello del dipinto di Raffaello, Galatea, scoperto l’anno scorso. Si tratta dell’incredibile ritrovamento dell’azzurro egizio in pieno Rinascimento. Nei dipinti rinascimentali è stato ritrovato solo in altri tre o quattro casi, quasi tutti legati alla zona di Ferrara.

 

Una cosa rara.

 

Forse, per caso, fu ritrovata una ricetta, o venne derivata da quella usata per produrre lo smaltino. L’alchimia era in voga a quel tempo e alcuni artisti ricercavano ricette particolari, non solo il Parmigianino. Ognuno faceva da sé i pigmenti. L’altra ipotesi è che, essendoci nel Rinascimento una tendenza di riscoperta dell’antico e di amore per la classicità, con i primi scavi archeologici siano stati trovati manufatti o tessere di mosaico come ci sono, per esempio, a Ercolano, in un ninfeo tutto foderato con tessere in azzurro egizio, allora di moda. Il Rinascimento è un periodo in cui il pigmento ricavato dal lapislazzuli costava più dell’oro, quindi chi avesse trovato tessere di azzurro egizio in uno scavo avrebbe probabilmente pensato: siamo ricchi, maciniamo tutto e otteniamo un pigmento.

 

E successivamente ci sono altre evenienze? Ad esempio nel periodo Barocco?

 

Da quel momento in poi, non c’è più azzurro egizio praticamente fino alle campagne d’Egitto di Napoleone e agli scavi di Pompei. Teniamo presente che l’azzurro era un pigmento estremamente ricercato perché in alternativa esisteva solo il lapislazzuli, che aveva un costo esagerato, oppure l’azzurrite che è labile e poi ha anche una tonalità leggermente diversa e che nel tempo tende a diventare verdastra. Non nego che con l’azzurrite si possano produrre opere meravigliose, come è il caso ad esempio dei dipinti della Cappella degli Scrovegni, ma i pittori non erano mai soddisfatti dei materiali che avevano a disposizione. Nonostante l’utilizzo diffuso dell’azzurrite si ricercava un tono più vicino a quello del lapislazzuli. In ogni caso, rispetto agli azzurri, la ricerca è sempre incessante. Infatti, nel Settecento, arriva il blu di Prussia.

 

Questa scomparsa dell’azzurro egizio ricorda ciò che è successo con il guado.

 

Il caso del guado è un po’ diverso perché si tratta di una produzione europea che si era sviluppata per sopperire alla mancanza di indaco indiano. L’indaco proveniva dall’India (da cui prende il nome), e in Occidente si smerciava già in epoca romana come ci dice Plinio il Vecchio nel libro XXXIII della Naturalis Historia. L’indaco arrivava sulla via della seta, insieme con le spezie, fino alle conquiste di Gengis Khan. Tuttavia, quando l’Impero Mongolo si disgregò, si susseguirono una serie di guerre e disordini che determinarono una situazione politica frammentata e conflittuale, che fece sì che la via della seta fosse interrotta. La situazione peggiorò ulteriormente con la caduta della città di Costantinopoli nel 1453. Da quel momento, nacque il grande sogno di percorrere le rotte via mare per raggiungere l’India e evitare gli ottomani. La produzione del guado, che già esisteva in precedenza, si diffuse di fatto solo in risposta a questa emergenza, perché poteva far fronte alla mancanza di indaco.

 

Venezia ha avuto un grande ruolo rispetto ai pigmenti

 

Certamente Venezia era la porta d’Europa e aveva una serie di stazioni commerciali in prossimità dell’impero ottomano, ad esempio Cipro e Creta, che è rimasta veneziana per moltissimo tempo. In altre isole c’erano anche i genovesi, come a Chios.

 

Chios, dove si raccoglieva la resina mastice di Chio.

 

Sì, la profumata resina mastice che si ricava dal lentisco e ha tantissime proprietà:dal produrre vernici ad essere bruciata come fosse incenso. Era anch’essa una merce preziosa trasportata dai mercanti. Tutta quella zona, infatti, era ricca di commerci gestiti dalle potenze Occidentali che avevano ottenuto numerosi possedimenti e concessioni commerciali in seguito alle crociate.

Venezia ebbe un ruolo chiave in questo, perché il problema era far arrivare le merci passando per l’Impero Ottomano e i possedimenti della Serenissima si ritrovavano ad essere i più strategici essendo a poche miglia di mare dai suoi confini. Bisognava passare nelle terre degli ottomani e di altre popolazioni che ne aumentavano il prezzo ed era necessario avere accordi commerciali e anche su questo i mercanti veneziani erano abilissimi. Nonostante le numerose guerre tra Venezia e l’Impero Ottomano, infatti, i commerci tra i mercanti veneziani e ottomani erano fiorenti. È proprio in questo periodo che il preziosissimo pigmento ricavato dal lapislazzuli si diffonde grandemente e prende il nome di azzurro oltremare, proprio perché dall’Afghanistan arrivava nei porti veneziani passando dai possedimenti d’oltremare. In questo clima, il commercio dell’indaco è proseguito finché è stato possibile, pur con sospetto, dato che, comunque, dopo Costantinopoli, comportava commerciare con gli infedeli.

Quindi l’Europa si trovò nella condizione di dover sopperire all’indaco e lo fece con il guado, che ha è esattamente la stessa molecola. Da un punto di vista chimico si tratta, infatti, dell’indigotina: il guado e l’indaco sono indistinguibili una volta tinto il tessuto, anche se i precursori sono leggermente diversi.

 

Mi sembra di ricordare che in Italia il guado era diffusissimo.

 

Ancora di più in Francia. Il triangolo tra le città di Albi, Carcassonne e Tolosa era la principale area di produzione, che secondo alcuni, fu denominata Paese della Cuccagna dalle parole coque e cocagne che erano i termini usati per designare i panetti sferici in cui era confezionato il guado. La zona divenne talmente ricca grazie al guado che, secondo questa ipotesi, l’espressione avrebbe poi finito col designare un immaginifico paese di ricchezze. L’azzurro derivato dal guado era definito pastel ed era più tenue rispetto all’indaco. Forse questa è anche l’origine del termine pastello, a indicare colori chiari e poco saturi. 

 

Ho letto che nel rinascimento ci furono, nel Nordeuropa, delle guerre per non rinunciare al guado e per opporsi all’introduzione dell’indaco orientale.

 

Successe quando il portoghese Vasco da Gama riuscì ad aprire una rotta per l’India alla fine del 400, era il periodo dei grandi navigatori. Vasco da Gama arrivò a Calcutta e pose le basi per la Compagnia delle Indie Orientali. C’erano due Indie, quelle Occidentali, di Colombo, e le Indie Orientali, cioè l’India vera e propria. Da quel momento in poi i portoghesi acquisirono il monopolio del commercio con l’India e incominciarono a importare in Europa l’indaco indiano senza utilizzare le vie terrestri, che erano ormai difficilmente percorribili, e senza pagare dazio. Lo acquistavano a Calcutta a un costo bassissimo e in Europa lo vendevano a un prezzo molto più basso del guado. Inoltre, l’indaco indiano ha un potere colorante estremamente più alto del guado, perché è più concentrato.

Quindi le zone di produzione del guado che si erano sviluppate fintanto che non si poteva importare l’indaco indiano, si ritrovarono improvvisamente con un competitor con cui non riescono a rivaleggiare dato che l’importazione dall’India è molto più conveniente. Si creano così tutta una serie di leggi che proibiscono l’uso dell’indaco indiano, che viene definito cibum demoni, cioè pigmento del diavolo, perché i soldi spesi per tingere con l’indaco andavano agli infedeli. In Inghilterra vigevano editti che prevedevano addirittura la pena di morte per l’uso dell’indaco. Poi però il guado andò in crisi in modo definitivo: nonostante tutti questi tentativi protezionistici, non si riuscì ad arginare il mercato dell’indaco indiano che pian piano divenne lo standard.

Non è un caso se, nello stesso periodo, verrà introdotta la produzione della tela di jeans, non ancora i pantaloni, ma la tela, insieme con la tela di nim che sarebbe poi il denim. Questi nuovi tessuti prendevano il nome rispettivamente da due città: il jeans da Genova (dove probabilmente veniva imbarcato dopo che era prodotto in città manifatturiere del tessile come Chieri) e il denim dalla città francese di Nîmes dove veniva prodotto. Si tratta di fustagni che vengono tinti con l’indaco proprio in quel periodo, quindi a partire dal 500. Dall’India, a basso costo, arrivano tanto cotone a tanto indaco e quindi si inventano dei sistemi per utilizzarli e produrre dei tessuti che prima sarebbero stati costosi e preziosissimi, proprio in quanto azzurri.

 

Ti chiedo se hai altri casi in cui puoi associare dei particolari pigmenti ad alcune opere classiche come hai fatto con l’esempio precedente di Raffaello.

 

Sempre riguardo agli azzurri, è noto il caso dell’azzurro di lapislazzuli del Giudizio Universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina. È curiosa, in quel caso, la dinamica che dimostra quanto fosse prezioso il pigmento. Poiché, infatti, secondo il contratto il costo dei materiali era a carico del Papa, Michelangelo non esitò a farne larghissimo uso, probabilmente il più esteso in assoluto in Occidente, usandolo addirittura per lo sfondo. Al contrario egli stesso ne usò ben poco quando alcuni anni prima aveva affrescato la volta con materiali a sue spese.

 

E pigmenti utilizzati da altri pittori, per esempio Piero della Francesca?

 

Credo che Piero avesse una tavolozza abbastanza tradizionale per un pittore del Rinascimento, come d’altronde aveva anche Michelangelo.

Certamente quei pigmenti sono tutti interessanti, ciascuno è particolare.

 

Ci sono pigmenti che sono andati perduti?

 

Alcuni pigmenti sono molto resistenti e li troviamo in ottimo stato di conservazione altri invece sono più fragili e sono più difficili da identificare. Ci sono ad esempio casi di alterazione di pigmenti, com’è avvenuto anche a Pompei, con il cosiddetto rosso pompeiano, che, secondo alcuni, non era propriamente un rosso, dato che il calore del vulcano potrebbe avere trasformato il giallo in rosso.

 

Come avviene con la calcinazione delle ocre gialle

 

Esatto, questi fenomeni sono interessanti e bisogna sempre tenerne conto quando si studiano i pigmenti, ad esempio in occasione di interventi di conservazione e restauro. Ci sono molti tipi di alterazioni note. Una molto comune è ad esempio quella dell’azzurrite che tende a diventare malachite. È un problema generico dell’azzurrite che è importante studiare approfonditamente in quanto potrebbe interessare, ad esempio, anche l’azzurrite usata da Giotto per realizzare il meraviglioso azzurro della cappella degli Scrovegni.

 

Dovuto a una questione chimica

 

È una questione di stabilità che riguarda i carbonati di rame che costituiscono l’azzurrite. L’azzurrite è stabile nel suo ambiente geologico di formazione ma quando la tolgo dalla miniera e la metto su un dipinto, l’ambiente cambia e il carbonato di rame più stabile diventa la malachite. L’azzurrite pertanto tende a trasformarsi nella malachite che è verde.

 

È un verde bellissimo quello di malachite.

 

Si usava anche come pigmento verde. L’azzurrite tende a diventare verde con il tempo, e può travisare l’immagine di molti dipinti. Altri casi di questo tipo li abbiamo con la biacca, il minio e il cinabro che tendono a diventare neri o marroni. Quello della biacca è un cambiamento brutale, cambia dal bianco al marrone scuro e cambia tutte le rese originarie. Esiste un metodo per ripristinare la biacca, inventato da italiani a Firenze. Il problema è che, a volte, si preferisce non applicare questo metodo per via di filosofie di restauro differenti, che lo interpretano come un’alterazione dell’alterazione.

Rimanendo nel mondo dell’azzurro, un altro caso molto importante e curioso che mi è capitato, è legato a un dipinto specifico, l’Ultima cena di Veronese a Brera.

 

Veronese, fra i pittori del suo tempo, pare fosse molto prudente con i pigmenti.

 

I veneti avevano sempre una particolare ricchezza di pigmenti, perché Venezia aveva un accesso privilegiato a tutti i commerci, era la piazza dove si scambiavano i pigmenti e quindi i veneziani pagavano i colori a un prezzo inferiore rispetto a tutti gli altri.

A Venezia, proprio per la sua tradizione vetraria, viene prodotto un altro pigmento azzurro, lo smaltino. È un pigmento che viene sviluppato a Venezia, o forse in Boemia, comunque in una zona di tradizione vetraria. Si tratta infatti di un vetro azzurro al cobalto che veniva macinato. A dire il vero, siccome è molto difficile macinare il vetro, avevano inventato un metodo per ridurlo in polvere che consisteva nel riscaldarlo molto e raffreddarlo improvvisamente, ottenendone la frantumazione in seguito all’effetto di shock termico. Quindi si otteneva un pigmento azzurro a buon mercato, il più economico di tutti. Spesso nelle campiture grandi veniva utilizzato questo pigmento, perché costava poco: molti cieli sono fatti così. Generalmente per le vesti e i particolari più di pregio e sacralità si preferiva invece usare pigmenti più preziosi, se erano disponibili. A volte dipendeva dalla committenza e da quanti soldi c’erano a disposizione, poteva comunque capitare che anche il manto della Madonna fosse fatto con lo smaltino. La particolarità che ho riscontrato nel caso dell’Ultima Cena di Veronese è che lo smaltino è scolorito, perché venne usato a olio, questo pigmento può patire l’uso nella tecnica ad olio.

 

Ma questo vale per molti pigmenti…

 

Lo smaltino patisce particolarmente per via della saponificazione dell’olio che si trasforma nei suoi acidi grassi. Questi reagiscono e estraggono gli ioni di cobalto, formando così dei carbossilati di cobalto che non sono più azzurri ma grigi o marroni, colori non particolarmente gradevoli. È una trasformazione molto frequente: lo smaltino diventa marrone o grigio e può dare esiti veramente travisanti. Nel caso di Veronese è interessante perché l’effetto generale del dipinto sembra quasi notturno. L’Ultima Cena è di solito rappresentata in un ambiente serale, ciononostante ci aspetteremmo un cielo più chiaro e invece è molto cupo, probabilmente è il risultato dell’iscurimento dovuto a questa reazione.

 

A questo processo chimico…

 

Tra l’altro, è un dipinto molto bello, ha una ricchezza di azzurri bellissima. Dove c’è il manto del Cristo è stato usato un azzurro più pregiato, c’è uno strato di smaltino, e sopra uno strato di azzurrite mescolato con lapislazzuli e biacca, quindi si tratta di un azzurro composito.

 

Anche il cinabro veniva alterato con altri pigmenti?

 

Il cinabro veniva alterato con il minio che è un po’ più aranciato, era un comune adulterante del cinabro.

 

Addirittura venivano confusi i nomi dei colori.

 

Sì, c’è un problema storico. I romani tendevano a chiamare entrambi minio. Minium era quello che noi oggi chiamiamo cinabro mentre minium secundum era quello che noi oggi chiamiamo minio. Il loro nome è legato al fatto che, al contrario delle terre, provenivano entrambi dalle attività di estrazione in miniera. Ma i problemi di nomenclatura si complicano ulteriormente con il rosso cinabro. Attualmente lo chiamiamo cinabro quando è di origine minerale e vermiglione quando è di origine artificiale, ma il composto è sempre lo stesso, ovvero il solfuro di mercurio. Vermiglione, però, deriva da vermiculus che era il nome del kermes, del vermicello da cui si estraeva la lacca, un colorante rosso che non ha praticamente nessuna attinenza con il solfuro di mercurio.

 

Sono esempi interessanti, oltre a Veronese hai affrontato altri casi?

 

Sull’alterazione dello smaltino e del cinabro ci sono molti casi di pittori minori. È molto diverso il comportamento di stessi pigmenti a seconda se sono dati a olio o ad affresco. Per esempio il bianco di piombo che spesso a fresco si altera, con l’olio è stabile perché viene preservato dall’aria.

 

Però è un caso, perché l’olio, come emulsione, non è così stabile.

 

Ciascun pigmento può essere legato a una particolare tecnica. Per esempio, il blu di Prussia a olio viene benissimo, invece a fresco non si può assolutamente usare, perché si altera appena asciutto e diventa marrone. Ciò è dovuto al fatto che l’affresco ha un pH altissimo, data la sua natura alcalina, quindi quasi tutti i pigmenti organici non si possono utilizzare perché la basicità della calce li distrugge. Il blu di Prussia, pur essendo semiorganico, è un ferrocianuro e il ferro nell’ambiente basico del medium tende a diventare idrossido. La stessa cosa succede ad altri pigmenti che sono particolarmente poco adatti a essere usati insieme con altri, per esempio l’orpimento si altera spesso e fa alterare i pigmenti con cui è mescolato.

 

Infatti a un certo punto non è stato più usato, anche perché tossico.

 

Molto tossico, ma molto bello. Gialli veramente belli non ce n’erano nell’antichità, l’orpimento prende il suo nome da aurum pigmentum, perché aveva un colore simile all’oro. Da lontano poteva sembrare oro, gli egizi lo usarono tantissimo. Ci sono altri pigmenti a base di arsenico come il rosso realgar e il pararealgar che è un prodotto di alterazione del realgar di colore giallo-aranciato. Non è sempre facile distinguere gli uni dagli altri, in ogni caso gli egizi li utilizzarono e anche i fiamminghi. Nel rinascimento, in Italia, l’orpimento fu usato dai veneti, che usarono anche il realgar chiamandolo anche risalgallo, realgallo o risigallo.

Per i gialli c’erano altri pigmenti artificiali molto interessanti, più stabili, come il giallo di Napoli e il giallo di piombo e stagno, in due tipologie tipo uno e tipo due. Il giallo antico di derivazione vetraria e ceramica.

 

Sì perché il piombo e lo stagno erano i metalli base della maiolica, per produrre il classico giallo di Deruta che ho usato anch’io.

 

Il giallo anche dei Della Robbia. Da quelle sperimentazioni si è arrivati ai gialli per la pittura: giallolino, giallorino, con tutta quella varietà in cui troviamo anche il giallo di Napoli di antimonio. Finché nell’Ottocento verranno introdotti il giallo di cromo e il giallo di cadmio.

 

Anche il blu cobalto è ottocentesco.

 

Il blu cobalto è parente dello smaltino, fu introdotto all’inizio dell’Ottocento, e fu chiamato anche blu di Thénard (Louis Jacques Thénard inventò l’alluminato di cobalto nel 1802). Ne esistono due o tre varianti perché si può fare con lo stagno e si può fare con l’alluminio, stannato di cobalto e alluminato di cobalto.

 

Hai avuto nozione di varie emulsioni? Negli ultimi anni ho usato perlopiù la tempera grassa e ho capito la differenza fra questa e l’olio.

 

È un altro mondo. Finora abbiamo parlato di quello dei pigmenti. Poi c’è quello dei leganti. Solo per accennare, il momento del passaggio dalla tempera all’olio è forse il più interessante per i leganti e nella storia delle tecniche artistiche. Fu introdotto l’olio di influsso fiammingo.

 

L’invenzione dell’olio da parte dei fiamminghi è una leggenda ancora oggi difficile da sfatare.

 

C’erano degli usi sporadici anche precedenti, ma la moda della pittura a base di olio di lino è legata al mondo fiammingo.

 

Quando al telefono ti ho chiesto il motivo per cui nel restauro si utilizzano gli acquarelli per i risarcimenti delle lacune di pellicola pittorica in tavole e in tele accennavi qualcosa.

 

Il restauro è una scienza non esatta e influenzata dalle opinioni e dalle mode. È una disciplina abbastanza simile alla medicina per molti aspetti. Ad esempio, molti restauratori e funzionari di soprintendenza operano al fine di ottenere un certo grado di integrazione delle lacune mentre altri preferiscono non integrarle per nulla o quasi e lasciarle così come si trovano in quel momento.

 

Come avrebbe fatto Cesare Brandi.

 

Sì, quell’approccio è ancora molto attuale, però può essere più o meno integralista. Ci sono scelte di restauro che sono brandiane ma che prevedono di attenuare un po’ l’effetto estetico disarmonico oppure ci possono essere scelte radilcamente brandiane. Negli anni Sessanta e Settanta, c’è stato un momento in cui non si integrava nulla, si lasciava il bianco, il colore della preparazione. Poi, siccome il bianco era fastidiosissimo, si è incominciato a usare i colori neutri, i toni smorzati, però anche così non sempre andava bene, allora hanno inventato la selezione cromatica, tre colori, il rigatino ecc.

 

E poi a un certo punto viene l’epoca in cui si deve capire che l’opera è stata restaurata

 

Sia la selezione cromatica sia il rigatino s’inquadrano in quel tipo di intervento. Come pure l’uso dell’acquarello, che non è il solo a essere utilizzato, dato che, ad esempio, anche i colori a vernice sono molto usati, anche per le tavole. La questione è che si usano dei sistemi molto reversibili. Si cerca di fare scelte per poter di nuovo restaurare il dipinto in futuro con facilità e in sicurezza. Se uso colori a olio per integrare le lacune di un dipinto ad olio, non va bene, poiché con il tempo l’olio polimerizza e quel restauro non riuscirò più a rimuoverlo a meno di usare mezzi aggressivi e pericolosi per l’opera d’arte e l’operatore. Se invece uso l’acquarello, per rimuovere il restauro basterà usare acqua. Non sempre l’acqua è la cosa migliore, perché potrebbe anche danneggiare il dipinto. Generalmente, però, con opportuni accorgimenti, come l’addensamento su supportanti, l’acqua può essere usata senza grossi rischi. Va comunque valutato caso per caso. Un’altra soluzione è utilizzare i colori a vernice perché le vernici che si usano adesso hanno una polarità che rimane bassa nel tempo, inoltre non si ossidano. Vengono scelti perché li posso rimuovere facilmente con la stessa facilità con cui si rimuove la vernice protettiva, che è reversibile. I vari approcci infatti prevedono un’alta reversibilità, così anche il pigmento applicato è estremamente reversibile.

 

Comunque l’idea è che il restauro deve essere non solo reversibile ma riconoscibile. Cosa difficile da ottenere.

 

Tendenzialmente riconoscibile. C’è una grande differenza di approccio da parte delle varie committenze. Se lavoro per un museo su un dipinto del Quattrocento che ha grandi lacune, di solito non si farà la reintegrazione oppure sarà estremamente riconoscibile. Comunque dipende dal funzionario: ogni caso è a sé. La cosa è soggettiva e dipende anche dal tipo di lacune. Se nel dipinto che si trova in una chiesa mancano delle parti di fondo che danno fastidio, perché il fondo è scuro e le mancanze sono chiare, dove non c’è niente da inventare, non aggiungerò qualcosa che potrebbe travisare la lettura del dipinto. La tipologia di restauro viene scelta dai funzionari, non spetta ai restauratori né tantomeno ai diagnosti. Il funzionario della sovrintendenza che ha studiato quell’opera fa una scelta critica, decide il modo in cui è opportuno integrare l’opera, in qualche caso potrebbe concludere che in certi limiti è corretta anche un’integrazione mimetica.

 

Non ti è mai capitato di avere a che fare con un restauro di una tempera grassa restaurata con la tempera grassa?

 

A quanto ne so, non è un approccio che viene utilizzato. Normalmente, anche se facessi il restauro mimetico, che ha un suo significato, l’idea è quella di restituire un’immagine. Non sono un teorico del restauro, ma noto che l’approccio è quello di ripristinare la leggibilità dell’opera. Quindi posso fare un po’ di restauro mimetico, posso attenuare l’eccesso di un bianco, sottotono. La chiave è quella di ripristinare la leggibilità dell’opera. Invece andare a usare gli stessi materiali e le stesse tecniche, sarebbe quasi una falsificazione, un inganno, che è una cosa estranea al restauro moderno.

 

Nel caso della Pala di Castelfranco — un’opera che nella sua carriera è stata restaurata otto nove volte nell’arco di vari secoli, e non credo sia un caso isolato,  da restauratori importanti come per esempio Pellicioli — si ha a che fare con parti ricreate ex novo, qualcosa che richiede una lettura particolare. Occorre chiedersi se si sta leggendo un’opera autografa o una sorta di trascrizione, in breve un documento.

 

Questo è il motivo che sta alla base dell’approccio al restauro reversibile e riconoscibile, perché, se non fosse riconoscibile, e dipingo una mano o un braccio nuovi, mancanti, o un viso o il panneggio, intervenendo sul dipinto di un artista che normalmente viene riconosciuto dal modo particolare di tratteggiare il suo panneggio, traviso l’opera. Per questo motivo è un approccio che viene evitato, perché fuorviante.

 

Talvolta capita che in un dipinto che ha vari secoli, la stesura dei pigmenti sembra freschissima? A parte l’effetto dato dalla vernice, perché sembra dipinto appena qualche anno fa? È importante avere la cognizione di cosa si legge, anche da questo punto di vista: cosa sto guardando? Alcuni sono colori splendidi, da tecnico posso capire che in parte sono dati dalla tecnica antica a tempera o mista, straordinaria, anche a distanza di secoli, però il dubbio sulla riconoscibilità del restauro sorge spontaneo.

 

Beh, la nostra percezione dei colori antichi è spesso travisata a causa delle vernici che vi sono sopra e che sono ingiallite oppure a causa dello sporco o della fuliggine che vi si sono accumulati. Molte volte il nostro cervello in un certo senso si “affeziona” a questi effetti travisanti e rimuoverli può provocare uno shock. Due casi emblematici sono la Gioconda che attualmente risulta di tonalità davvero molto gialla. Negli anni ‘90, per provocazione, fu chiesto a mia zia di fare una proiezione virtuale di come sarebbe stata una volta pulita. Usando uno dei primi software disponibili si produsse un’immagine della Gioconda come se fosse a metà della pulitura e fu pubblicata sul celebre Giornale dell’Arte. L’immagine suscitava emozioni contrastanti perché distruggeva la nostra immagine mentale dell’opera di Leonardo pur tuttavia restituendo verità a quell’opera e avvicinandola maggiormente ai normali canoni di un dipinto del Rinascimento. Un famoso caso reale che rientra in questa tipologia è quello della Cappella Sistina e delle infinite polemiche che suscitò il suo importante intervento di pulitura iniziato negli anni ’80 e terminato nel 1994 ad opera del restauratore Gianluigi Colalucci. I colori che si potevano ammirare dopo il restauro erano sbalorditivi. I libri di storia dell’arte dovevano essere riscritti e la mente di generazioni di storici dell’arte si doveva abituare a quel tripudio di colori di tonalità accese e sgargianti precedentemente offuscati e nascosti. Ovviamente con questo non voglio dire che la pulitura vada eseguita con leggerezza. Anzi. È una delle più delicate operazioni di restauro in quanto per definizione irreversibile e va eseguita solo con i più alti standard di sicurezza per l’opera (e perché no, anche per l’operatore). Anche in questo caso si potrebbero scrivere volumi e fare convegni a riguardo. Se ne sono fatti molti e, giustamente, molti se ne faranno in futuro visto che il restauro è una disciplina viva e in costante evoluzione.         

16 maggio 2022

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