Intervista a Vittorio Polacco:«La mia testimonianza civile»
Come comincia la sua testimonianza civile della deportazione? Lei è deportato con lo zio che riesce…
Non vengo deportato…
Era l’inizio... Lei, bambino, sul camion sale…
Il 15 ottobre mio padre mi porta a casa dai nonni paterni, per non andare con loro a Roma a per il commercio di uova, ortaggi… Quindi mia sorella l’hanno lasciata… La mattina alle cinque e mezza, mio padre era partito alle cinque, si sente bussare alla porta. I nonni pensano che mio padre non sia ancora partito. È lo zio che si alza, apre la porta e trova due tedeschi. Uno si mette dritto in faccia e l’altro entra dentro e strappa i fili del telefono. Allora lo zio che parlava otto lingue, compreso il tedesco, dice: «Ma scusate, che cosa state facendo?». Il tedesco disse: «Legga questo biglietto». Il biglietto era scritto in italiano. C’era scritto di portare più cose possibili in una valigia a persona, ma più cose possibili di lavoro, perché al campo di lavoro dove andavano c’era uno spaccio. Quindi uno, se gli serviva di più da mangiare, con lo spaccio cambiava dando le cose di valore. Allora mio zio che era sveglio disse che se ci portavano via a lavorare, non si sa dove, lui aveva un bambino che però non era suo figlio. «Questa è mia figlia…»
«No, disse il tedesco, c’è l’ordine scritto su questa carta di portarvi via.»
Ci stipiamo tutti quanti sulla porta e l’altro tedesco va a bussare alla porta di fronte. Lo zio parla a voce alta in italiano e disse: «Che bussate, che non c’è nessuno. Sono partiti ieri con le valige e sono andati via». In altri termini stava dicendo ai vicini di stare attenti. E lo ripete in tedesco, scusandosi di non essersi ricordato che l’italiano non lo capivano. Così i tedeschi hanno rinunciato a continuare a bussare.
Scendiamo giù c’è il camion coperto, ci caricano sopra; e io so con certezza che stavo in braccio a mio nonno. Il camion parte. Non so quanta strada abbia fatto, perché si fermavano a caricare ancora. La mia fortuna è stata che andando a via della Luce, al numero 13, dove avrebbero dovuto esserci i nonni materni, con i tre zii e la zia che erano ragazzi: niente. Non c’erano. Erano andati a fare altre cose. Quando bussano al portone, la portinaia guarda dallo spioncino e vede i due tedeschi. Corre di sopra e bussa. E dice agli inquilini che si porteranno via i giovani e dà loro le chiavi della terrazza, aggiungendo che si portino dell’acqua.
Poi la portinaia scende e apre il portone. E succede la stessa cosa che alla casa dei miei nonni paterni. Coloro che scendono li fanno salire sul camion.
La portinaia si era avvicinata al camion per vedere cosa stava succedendo e vede me [un bambino di tre anni] e mio zio gli fa un cenno. Occorreva fare molta attenzione. Un tedesco che stava dietro al camion dice: «Non scenda nessuno perché gli spariamo a vista». E lo dice in tedesco. Lo zio lo ripete in italiano: «Non scendete nessuno perché vi sparano a vista».
Il tedesco fa il gesto di accendere una sigaretta, ma siccome aveva piovuto e tirava vento alle sei di mattina. Non c’erano gli accendini di oggi e mentre si copre la sigaretta, mio zio mi dà come una palla in braccio alla portinaia, che non va dritto al portone ma costeggia il camion dall’altra parte per non farsi vedere. Non va al suo portone dritta dritta e segue la strada e va da un’altra portinaia, e le dice: «Prendi Vittorio perché si stanno caricando tutti gli Ebrei. Non si sa dove vanno. E i genitori non ritrovano il figlio quando ritornano…».
Questa è la mia storia.
È per il dettaglio della sigaretta che lei si sente anche come “un figlio del vento”? Quasi gli dovesse la fortuna di essere sfuggito al rastrellamento… La portinaia ha rischiato la vita.
Si chiamava Luisa Della Boscaia e le devo la vita. Mio zio l’ha fatto quasi involontariamente dicendo: «Io parto, non so dove, dove mi portano (nessuno lo sapeva). Per lo meno mio cognato quando torna ritrova il ragazzino». Quindi mi conoscevano.
E devo dire la verità, tutta questa storia l’ho saputa a otto anni quando Arminio Wachsberger, mio zio, torna in Italia, dopo i campi di sterminio, dopo che l’hanno chiamato a testimoniare, perché è stato interprete di Mengele, e quindi lui ha visto con i suoi occhi quello di cui ha testimoniato. Purtroppo non lo volle accettare nessuno.
Lui come interprete, parlava otto lingue, quando i tedeschi facevano saltare la corrente da un campo all’altro, traduceva gli ordini nelle varie lingue. E quindi le cose che ha visto lui nei vari campi sicuramente non le ha mai raccontate nessuno. Neanche lui… per tanti anni… Ancora nel 1992 mi diceva: «Non ti posso raccontare niente. Perché non c’è niente da raccontare. Quando il treno è arrivato… due giorni siamo stati a Roma, due giorni… il treno era di carri per il bestiame, non erano treni comuni, abbiamo sofferto per due giorni, quando siamo arrivati c’erano tanti militari con i bastoni in mano, parlavano in tedesco e nessuno capiva. Allora ho chiesto chi fosse il comandante. Gli ho detto che parlavo otto lingue e che potevo tradurre quello che richiedevano». Allora i giovani adatti al lavoro, che ce la potevano fare, da una parte. Gli anziani, i malati, e quelli che non ce la potevano fare, su camion, accompagnati a dove andranno a dormire. Questo diceva il tedesco che dava ordini. E così il padre e la madre con Clarissa in braccio, la cuginetta, salirono sul camion. Quando poi la mattina presto lo zio chiese: «Dove avete portato le persone anziane che stavano qui, c’era pure mia moglie con mia figlia?». Il tedesco gli rispose che era arrivato troppo tardi. «Lo vedi quel fumo? I vostri parenti sono lì».
Questa storia l’ho saputa che avevo otto anni, e lo zio Arminio Wachsberger passava da Roma perché risultavano delle tasse non pagare, relative al periodo nei campi di sterminio. Allora a Roma ha rivisto mio padre e così ho saputo la storia.
Due domande. Passerà molto tempo prima che lo zio Arminio testimoni in pubblico di questa storia? Passerà molto tempo anche per lei prima di affrontare la testimonianza civile?
Io non sono arrivato a Auschwitz. Il rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943: di 1259 persone, prese e caricate sui camion, siamo rimasti in vita in tre soltanto. A otto anni non si va a pensare di andare in giro per le scuole. Mi sono sposato, ho avuto due figli, avevo un’attività commerciale… Quando ho chiuso l’attività perché non andava più bene, allora mi sono detto: «Perché adesso che sono senza far niente non vado alla scuola qua vicino a parlare con i ragazzi?» E da qui, nel 2000, 22 anni fa ho cominciato a testimoniare e ho avuto la soddisfazione di avere tante richieste. La cosa più importante è vedere i ragazzi negli occhi che piangono e fanno piangere anche a me.
Le video conferenze fatte in televisione non mi sento più di farle. Perché io voglio parlare ai ragazzi, vederli…
La ringrazio, tra l’altro, di avere accettato questa intervista telefonica…
Pensi che il sindaco di Anzio ha preso addirittura un cinema in affitto per me, per incontrare i quattrocento ragazzi delle scuole.
E lo zio Arminio ha cominciato a un certo punto a intervenire in pubblico o sono le figlie che hanno raccolto le sue testimonianze?
Lo zio non è mai andato in pubblico a parlare, sebbene abbia concesso interviste. La RAI, con alcuni psicologi, ha dedicato una giornata allo zio Arminio per un video, anche con vari materiali. E lui ha cominciato a raccontare molte cose, ma non “tutte” le cose, “molte” cose. Queste molte cose che lui ha raccontato, la RAI ce le ha, naturalmente; come ce le ho io, che ho fatto varie copie e una l’ho mandata allo Yad Vashem (l’Ente nazionale per la memoria della Shoah), a Gerusalemme. Allo Yad Vashem, dove c’è una parte di chi ha salvato altri essere umani, ho visto anche dei video di mio zio che raccontava in italiano quello che gli era successo.
Però lui molte cose mi ha raccontato, ma altre no. E quando io l’ho incontrato dopo molti anni, lui stava a Como e io passavo da Milano, gli dissi: «Mi dici qualcosa dei nonni?» No. Non mi ha mai voluto dire niente. Purtroppo quando lui è morto, una sua figlia mi ha chiamato – non conoscevo le due figlie - e mi ha detto: «Papà è morto al mare. Abbiamo dedicato tre giorni per fare tutta la documentazione per riportarlo a Milano, ma purtroppo non avevamo il tuo numero. Quando sono entrata nel suo ufficio ho trovato il tuo numero di telefono. Ti sto chiamando adesso, mi dispiace che tu non ci sei stato, però so che ci saresti stato».
Da lì ho cominciato a conoscere le mie cugine. Sono andato a incontrare la prima a Pisa e poi l’altra a Milano. Dopo sono venute a Roma e si sono rivolte alla madre, dicendo: «Noi sappiamo tutta la storia, che papà ci ha raccontato, e adesso che non c’è più possiamo trascrivere questa storia e le cose che ha scritto lui, per testimoniare?» Era andato a Norimberga a testimoniare, addirittura, perché lo avevano chiamato come interprete di Mengele, che faceva gli esperimenti. E la mamma ha detto loro: «Va bene, mi aggiungo anch’io a scrivere questo libro». Hanno scritto questo libro, che si chiama L’interprete.
Questa è la versione che hanno fatto in famiglia…
Loro hanno fatto questo libro e ne hanno stampato centocinquanta copie, per i parenti e i conoscenti. L’hanno regalato al rabbino capo di Roma, allo storico Vegetti, a personaggi importanti. E dopo qualche anno, per cercare di diffonderlo un po’ di più ho chiesto il permesso alle cugine di stampare una cinquantina di copie, senza fine di lucro.
Lei “solo” dopo ventott’anni affronta la sua prima visita a Auschwitz?
Ci sono stato perché si parlava sempre dei campi di concentramento. Poi si è detto che non erano campi di concentramento ma campi di sterminio. La Shoah è un campo di sterminio, non è un campo di concentramento.
Quando sono andato a Auschwitz quando per mia figlia era un interesse: ha chiamato dei reduci e ha chiesto loro perché non andare lì insieme. E siamo andati. Quindi i reduci sono usciti da quel campo. Loro sono rientrati. Hanno trovato il posto dove dormiva una persona… Hanno trovato ancora il legno intriso del suo sangue. C’erano delle macchie sul giaciglio. È stato commovente. Non si può certo dire che sia stato bello. È stato commovente.
Qual è il suo messaggio essenziale che vuole lasciare rispetto a questa atroce vicenda della Shoah?
Quando vado nelle scuole, ecco il mio messaggio essenziale è quello che rivolgo ai ragazzi quando vado nelle scuole: «Buongiorno, cari ragazzi prima di raccontarvi la mia storia, vi devo chiedere tre cose. La prima: rispetto della religione; la seconda: rispetto del colore della pelle; la terza rispetto per gli anziani. Ai grandi che cosa si può trasmettere? Dico ai ragazzi che ovunque vadano raccontino la mia storia.
C’è una grande difficoltà di comunicazione con gli adulti, come se fossero plasmati per sempre… È ciò che resta come antisemitismo criptico, non solo in Italia.
L’antisemitismo viene dall’ignoranza. I più ignorano. Ma anche su invito della nostra comunità israelitica di Roma di andare in Sardegna a parlare a dei ragazzi, io non ci posso andare per l’età. Non è che non voglio… Roma e provincia posso ancora incontrare i ragazzi per raccontare la mia storia. E con questo sono giunto alla conclusione.
La ringrazio moltissimo sig. Vittorio Polacco per la sua testimonianza.
Io ringrazio tutti quelli che s’interessano, non a me, s’interessano alla mia storia, perché è da trasmettere. Ho conosciuto gente che è venuta apposta da vari paesi. Un giovane è andato poi per tre giorni a fare le riprese a Auschwitz e mi ha detto che è importante che la gente sappia la verità dalle persone che ancora sono in vita.
Mi chiedo perché io sia rimasto in vita…
Non c’è il perché.
Intervista registrata domenica 8 maggio 2020
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