“Anatomia di un tramonto”di Marina Torossi Tevini
A cosa serve la poesia? E poi: cos'è la poesia? E' l'anima in presa diretta di un singolo, attenzione estrema alle cose dentro e fuori, rivelazione fulminea del profondo e dell'universale? E' ingegneria della parola? La poesia è il progetto, il programma prima della realizzazione - basti pensare che le grandi rivoluzioni hanno trovano sempre il loro poeta – o bilancio e rilancio? Di certo, in poesia, il tempo non è algebrico e non finisce, pertanto c'è un solo bilancio che può stabilire ed è il bilancio dell'avvenire. Sta comunque sempre tra i due fronti della poetica e dell'estetica, della rapsodia e della prosodia. In ogni caso sempre difficile da afferrare e da definire, tanto più se si tratta di raccolte di versi scritti in un arco più o meno lungo di anni, ed è difficile trovare un filo di Arianna che ci guidi. L'impatto, a fine lettura, del volume Anatomia di un tramonto (Campanotto 2024) di Marina Torossi Tevini, terzo libro di poesie di questa autrice dopo Donne senza volto (Svevo, 1991) e L'Unicorno (Campanotto, 1997) è netto e forte. Lascia un senso di complessità, profondità, pluralità, echi di una stratificazione di letture importanti: Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger, ma anche Eliot e Dylan Thomas, che si armonizzano in componimenti intensi come spesso avviene quando le donne si raccontano e raccontano, attraverso uno sguardo lucido e analitico che parte sempre dall'anima emozionale (“le donne sono carnesangue”). Potremmo configurare questa raccolta come un diario di bordo, l'esplorazione dell'esistenza come fosse un safari o una spedizione tra i ghiacci dell'Antartide (non a caso l'autrice è una indefessa viaggiatrice che ha compiuto più e più volte il giro del mondo), un interrogarsi poi sulla trasformazione in corso nel modo di fare questo viaggio, il che porta con sé l'indagare sulla trasformazione culturale, economica e politica in atto nel mondo. Una filosofia di vita in versi liberi, che offre diversi spunti di riflessione per ciascuno di noi. Ma se dovessimo trovare un fil rouge che attraversa il libro, diremmo che la considerazione dell'ineluttabile trascorrere del tempo costringe lo scrittore ma anche il pittore o lo scultore, insomma l'artista, ad abitare l'altro tempo. Un aneddoto. Narra la leggenda che tale fosse la bellezza di Nefertiti, regina d'Egitto, che il Faraone commissionò al più grande scultore del tempo, Thutmosi, una statua tra le più belle mai viste. L'opera non verrà mai completata perché Thutmosi, innamoratosi della splendida regina, verrà sepolto vivo. Ma, secondo la profezia, in un altro tempo lo scultore completerà il suo lavoro. Quindi il senso della nostra esistenza sta forse nel cercare, in noi, questo altro tempo, il tempo nel tempo, il tempo individuale nel tempo comunitario, il tempo dell'invenzione e dell'arte; il tempo della poesia e dell'intelligenza; il tempo della musica; il tempo di inventare continue rinascite, questo suggerisce Marina Torossi Tevini come modo proficuo e intelligente di vivere per quanto ci è dato, a volte anche abbandonandosi, nostro malgrado, al ritmo della vita. L'altro tempo: “il tempo minuto eterno o eternità-minuto” così scrive l'autrice. Questo solo interessa, questo solo resta perché attiene all'infinito.
Così è possibile intendere il titolo della prima sezione di versi, Infiniti e quotidiani – il volume ne conta sei - che esplorano vari àmbiti o piani dell'esistenza. Forse la più intima, quella in cui si avverte la fisicità e lo sguardo femminile che parte anzitutto dalle vicissitudini dell'anima, senza perdere arguzia, rigore e progettualità (“potrei comprimere l'universo in una palla? / Potrei osare?”; e ancora: “Ci sarà tempo? Ci sarà tempo per te e per me?”).
Nelle tranches successive, Aspettando i barbari e L'inverno del terzo millennio, Torossi Tevini apre l'orizzonte alla comunità, al mondo attuale “che ha smarrito il senso e il ritmo/ e non conosce pace e armonia/ Un mondo di giovani aspiranti/ a un'eterna giovinezza aurata/ un mondo di adulti che non sanno/ che è nella natura delle cose invecchiare/ che 'solita' stagione questo autunno/ d'ecatombi annunciate e d'apatia/ di corpi stesi al sole/scuri e morti”. Un mondo devastato dalle guerre, un Occidente alla deriva con il suo carico di sangue, tema questo caro all'autrice.
In Rien ne va plus si affronta il tema della vecchiaia dove “le strade diventano più brevi/ l'infinito non è di questo mondo/ si procede con il seguito delle proprie scelte/ figli case cani/ si procede/ e si smette di sognare/ eppure si affaccia intempestivo/ assurdo dolce/ un nuovo inganno/ la vita da ridisegnare/ forse sì ma/i tempi sono scaduti come il latte/ la strada è solo questa/ lunga dolce in discesa/ riponiamo la tavola da gioco/ rien ne va plus”.
In Funamboli si indagano i rapporti con i nostri simili e prossimi, fragili come per natura fragile è l'essere umano: “mancano gli appigli qualche volta/ per questo funambolico contatto”. E ancora:
“Cammino su un filo fragile di vento/ cammino e inciampo a ogni passo/ cammino per tenderti la mano/ma ti tocco/e tu precipiti con me”.
Ma è forse nell'ultima scelta di poesie, la più breve, riunite sotto il titolo Il tempo oscillante. che l'autrice ci dà la chiave per leggere in modo organico l'intera raccolta.
“La vita la vivo di corsa/ il piede sul piede” (...) “ma poi c'è sempre/ il tempo oscillante/ il tempo che non va di fretta”.
Di grande interesse la stessa scelta del significante “oscillante”. Oscillazione che può essere intesa come percezione soggettiva del tempo; oppure oscillazione del metronomo o del pendolo che scandiscono lo scorrere del tempo; o ancora come sospensione, esitazione, in cui si inserisce il tempo dell'invenzione e dell'arte e che dà accesso all'eternità: “il tempo oscillante/ che sosta fiorisce e rifiorisce/ e non ci sono stagioni/ a novembre gli arbusti/ s'inventano una gialla primavera/ e a luglio nasce e rinasce il vento”. Minuto eterno o eternità-minuto. Quello che conta. Quello che resta. Quello che aiuta a vivere e dà significato all'intera esistenza.