Leda Bubola. Femminismo e psicanalisi. Intervista
Come intervengono nel tuo itinerario culturale femminismo e psicanalisi?
Sono entrata nella stanza dell’analisi non ancora maggiorenne, in me una certezza del sentire che si è chiarita nel pensiero solo con gli anni: ciò che cercavo era capire qualcosa in più di me stessa, null’altro. Non facevano al caso mio le psicoterapie, non mi interessava che qualcuno descrivesse ciò di cui soffrivo e neanche che qualcuno mi aiutasse a capire ciò che mi accadeva, in fondo lo sapevo... mi interessava imparare a dirlo, quasi come se si trattasse di imparare a parlare. E, infatti, questa cosa del linguaggio mi ha sempre attratto, turbato, come se nascondesse una chiave che non riuscivo a trovare e di cui avevo disperato bisogno. Poi sono cominciate le letture di testi psicoanalitici, filosofici, letterari ancora al liceo finché nei primi anni di università, allora ero iscritta a lettere, ho incontrato la definizione di Lacan dell’inconscio strutturato come un linguaggio ed è stato per me impossibile resistere. Stavo facendo esperienza dell’analisi, pertanto pensai che, unitamente a quest’esperienza, capire come era fatto il linguaggio mi avrebbe aiutato a trovare più facilmente la chiave, per questo mi iscrissi ad un corso di laurea in scienze del linguaggio. All’epoca non vedevo che la chiave non stava nel linguaggio in sé ma nel prima e dopo, quel prima e dopo nei quali era così difficile stare per me, ci misi anni a renderlo sopportabile. Certo, il linguaggio c'entra sempre, capiamoci, ma è funzione organizzatrice, fonte di esperienza nel senso del rinvio a qualcos’altro, la psicoanalisi, invece, nonostante sia fatta essa stessa di linguaggio – la talking cure come la definì Freud – direi che sta in questo qualcos’altro.
Anche il femminismo è stato un incontro precoce, mi ricordo che ero a Padova appena uscita da un convegno organizzato da Oikos Bios Centro filosofico di psicoanalisi di genere antiviolenza dove ho svolto una formazione psicoanalitica, avevo in mano il testo di Adriana Cavarero Il femminile negato un testo edito da Pazzini editore nel 2007, credo fosse proprio il 2007, o forse 2008, leggevo e pensavo: “ora capisco, ora ogni cosa si rimette al suo posto”, quasi come se il mondo si rovesciasse sotto sopra e andasse finalmente dritto. Nel senso che avevo sempre avuto la sensazione che le cose non tornassero, che qualcosa mancasse, che le cose fossero rovesciate e che, da quella prospettiva, io non potessi vedere con i miei occhi. Era come se, quindi, non riuscissi ad attingere io stessa al senso delle cose e tutto mi apparisse lontano. Quando dico tutto intendo la vita stessa. In quegli anni Paola Zaretti, fondatrice di Oikos Bios, lavorava ad una serie di seminari dal titolo La clinica della Differenza. Frequentando quei seminari sono venuta in contatto con testi che provenivano dal femminismo, soprattutto dal femminismo filosofico e psicoanalitico che all’epoca io pensavo fosse il femminismo per poi capire, gli anni successivi, che così non era, che la dimensione filosofica e quella della ricerca propria ad un atteggiamento psicoanalitico, venivano spesso sostituiti da prese di posizioni ideologiche riassumibili in slogan. Abbiamo cercato nel corso degli anni, con il gruppo di studio e ricerca di Oikos a Padova, di lavorare su queste posizioni e aprirle alla riflessione filosofica e psicoanalitica, abbiamo fatto un grande lavoro, potete leggerne nel blog Tabula Rasa il femminismo ritrova la strada. Purtroppo, però il lavoro dell’archeologia del pensiero non piace a molti, e neanche a molte, credo ne sappiate qualcosa.
In ogni caso, nella storia del pensiero femminile, mi piace di più femminile al posto di femminismo, per ripulire questo termine dalla sua connotazione ideologica, e anche per portarlo al di là del sesso – nel senso di qualcosa di attingibile da entrambi i sessi nella loro differenza tutta da interrogare senza farne ipostasi –, ho trovato qualcosa di me, del mio modo di percepire e di pensare il mondo a partire da queste percezioni. È un modo, più che una teoria: se partiamo dall’assunto che ogni teoria nasce dai sintomi di chi scrive allora, forse, si potrebbe indagare invece di teorizzare, scavare invece di innalzare. Scavare nel senso di far riaffiorare qualche tesoro alla superficie. E in fondo è questo che ho imparato a fare nella mia formazione psicoanalitica, come vi ho detto, non cercavo qualcuno o qualcosa che descrivesse il mio sentire, cercavo uno strumento, ecco, secondo Paola è il martello, Come fare psicoanalisi con il martello il titolo di un suo bellissimo testo.
Quale femminismo e quale psicanalisi?
Qualcosa ho accennato prima per quanto riguarda il femminismo. Parlavo di pensiero femminile, preciso ulteriormente dicendo filosofie femministe, femminili. C’è un testo di Cavarero e Restaino Le filosofie femministe che traccia la storia del femminismo di prima e di seconda ondata soprattutto in Europa e in America, andrebbe infatti aggiornato con le esperienze femministi più recenti di altri continenti, medio oriente, africa, india. Per questo c’è il testo i Femminismi del mondo. A Sud DWF (Donna, Woman, Femme) del 2008. Quindi ci sono tanti femminismi, tutti da collocare geograficamente e storicamente. Inoltre, il femminismo è qualcosa sempre in relazione con altri ambiti del sapere, è un’ottica, una prospettiva quando siamo al di fuori dell’ideologia. Può diventare un’ideologia, come purtroppo è per la maggiore oggi, anche la nostra esperienza in Oikos Padova – lo distinguo da Oikos Trento che è la mia personale rivisitazione del progetto nel territorio trentino dove risiedo – con i femminismi padovani, veneti e italiani é stata pure troppo deludente – siamo state anche al convegno nazionale femminista di Paestum nel 2012. Femminismo per me vuol dire pensiero femminile e vuol dire soprattutto e prima di tutto filosofia, nel senso già accennato di scoperta, interrogazione, e quindi, assunzione di una propria soggettività che si esprime nella ricerca. In questo spirito mi ritrovo completamente con il lavoro di Paola Zaretti, che recupera il preziosissimo lavoro di alcune pensatrici femministe italiane di seconda ondata, Carla Lonzi, Angela Putino, e le fa dialogare con altri sviluppi, più accademici e teorici del femminismo, il femminismo della pratica dell’affidamento che nasce dal gruppo Diotima di Verona, soprattutto nella figura di Luisa Muraro.
E qui, nel citare la pratica dell’affidamento, rientra dalla finestra la psicoanalisi che, come spiega Paola nel suo libro Nel nome della madre, della figlia e della spirita santa edito da Con-fine nel 2013, è stata essenziale per il femminismo di seconda ondata che si è nutrito abbondantemente del sapere psicoanalitico poi misconoscendolo cioè inventando delle pratiche che non riconoscono il loro debito con il sapere e la pratica psicoanalitica. Certo, fin dall’inizio della seconda ondata del femminismo europeo, quindi anni ’70, “non c’è femminismo senza psicoanalisi” come dimostrano i testi ampiamente citati nel lavoro di Paola, ma di questo rapporto ambivalente e controverso, si pensi al testo di Juliet Mitchell intitolato proprio Femminismo e psicoanalisi del 1974 – nel quale l’autrice cerca di recuperare la psicoanalisi senza rinunciare alla critica che il femminismo rivolge alla psicoanalisi e alla filosofia in quanto segnate da fallogocentrismo, parola coniata da Luce Irigaray nella sua tesi di dottorato Speculum sempre del 1974 –, non rimane quasi più traccia, viene considerato superato quando, invece, è ancora pieno di questioni irrisolte. Ecco, qui, è utile fare due parole anche sulla psicoanalisi la cui storia si intreccia indissolubilmente con il femminismo in questo periodo storico e che, allo stesso tempo, negli anni appena successivi subisce un contraccolpo considerevole in Italia, contraccolpo che ha giocato a favore di questa sua dissoluzione in altri ambiti del sapere, come quello femminista.
Nell ’89 in Italia è emanata una legge che regolamenta la professione dello psicologo, nel processo che porta a questa legge si decide volutamente di lasciare fuori la psicoanalisi – si veda a questo proposito il testo Professione psicanalisi edito da Inconscio e società nel 2014 – essendo essa una pratica a sé con una formazione in nessun modo ascrivibile alla sola frequentazione di un corso di laurea. Purtroppo, però, a causa di interessi corporativi da quell’anno la psicoanalisi comincia a entrare sempre di più nelle scuole di specializzazione in psicoterapia e, questo, genera una sempre maggiore assimilazione della psicoanalisi alla psicoterapia. Ecco, io sono tra coloro che sostengono che la psicoanalisi non è necessariamente una psicoterapia, c’è un’ampia letteratura in merito. Quindi, per rispondere alla seconda parte della tua domanda, quella psicoanalisi che non è una psicoterapia, cioè non si inscrive nella cornice diagnostico-procedurale ma in una dimensione essenzialmente filosofica, di ricerca esistenziale. Tra l’altro a partire dalla fine degli anni ’90 Galimberti, che è uno psicoanalista di formazione filosofica, porta in Italia la consulenza filosofica, arriva poi dalla Germania la Philosophische praxis di Achenbach. L’atteggiamento filosofico – il sapere di non sapere socratico – è il fondamento della pratica analitica per come l’ho sperimentata e la ripropongo. Oggi c’è una diffusione importante delle pratiche filosofiche. Nella nostra associazione di categoria che si chiama SICAE, Società Italiana Consulenti e Analisti esistenziali, stiamo sostenendo questa formazione, quest’anno abbiamo in programma proprio di stringere contatti con gli istituti di formazione alle pratiche filosofiche e magari anche con i neolaureati in materie umanistiche. Prima della legge dell’89, le scuole di formazione psicoanalitica erano accessibili da chiunque, laureato o laureata in qualsiasi disciplina. Di fatto, però, non si trattava di istituti professionalizzanti perché, appunto, la psicoanalisi non è una professione come le altre. Il fatto di andare in analisi, la domanda d’analisi, non è tale se sottende la necessità prioritaria di ottenere un certificato, non può essere prescritta. Non lo dico io, trovate i riferimenti nel testo citato. E chiunque abbia fatto un’analisi lo capisce.
Per tornare al rapporto tra femminismo e psicoanalisi, a quale femminismo e quale psicanalisi, credo che l’assimilazione e la successiva cancellazione che il femminismo ha fatto della psicoanalisi possa essere stata ancor più favorita dagli accadimenti nel mondo della psicoanalisi in Italia tra anni ’90 e 2000.
Qual è oggi per te il futuro della psicanalisi e del femminismo?
Prima di tutto il recupero dell’aspetto filosofico nella sua dimensione pratica, e quindi, alternativa rispetto all’atteggiamento filosofico accademico e spersonalizzante da una parte, e rispetto alla tendenza medicalizzante dell’approccio psicologico dall’altra, per quanto riguarda la psicanalisi. Pratica filosofica, quindi, che intende comunque dialogare con entrambi gli ambiti del sapere, oltre che con altri, com'è sempre stato proprio alla filosofia lungo tutta la sua storia. Mi rendo conto che non sia semplice comprendere ciò che questo significhi perché si tratta di un’attitudine e non di una teoria. Noi siamo abituati e abituate a pensare le cose a partire da un principio unificante che tutto comprende, qui si tratta, invece, di mettere profondamente in discussione questa modalità di pensiero – che il femminismo ha chiamato fallologocentrismo ma che in altri ambiti viene chiamato androcentrismo, antropocentrismo – e cominciare a mettersi in osservazione dei fenomeni. Per questo credo che l’approccio che possa permettere un recupero del sapere psicoanalitico e di quello femminile, femminista, e quindi di un futuro come dici, sia proprio quello fenomenologico, osservazione di sé e del mondo e procedimento euristico, interpretativo, possibile nella relazione con l’altro che è la vera palestra di messa alla prova delle considerazioni sempre parziali ricavate dalla propria esperienza e dal proprio dialogo interiore. Ecco che si passa da un modello individualista ad una modalità relazionale.
Quali sono gli aspetti più attuali della tua ricerca?
Credo che sia proprio quest’ultimo l’aspetto più attuale della mia ricerca. C’è sempre più bisogno di qualcosa di pratico che permetta di concretizzare gli intenti etici di cui tanto si parla visto che ormai l’orologio dell’apocalisse incombe su di noi: sostenibilità, economia circolare, pace, valorizzazione delle singolarità, relazioni, ambiente... al momento sono parole perché non basta progettare, pianificare se questi pensieri non portano ad un’azione coerente con i propositi che ci si prefigge. Non è tanto il caso di farsene una colpa, cosa poco utile a meno che non si declini nei termini della presa di responsabilità e della conseguente indagine collettiva sull’agire e l’operare umani, nelle specificità e problematicità che si esprimono soprattutto quando in gioco ci sono le differenze. Credo che questo debba diventare funzione base e fondamento delle nuove soggettività emergenti. Affinché ciò avvenga serve una pratica che sia filosofica e analitica nel senso dell’assunzione della capacità di guardare a sé, della messa in discussione e dell’analisi del proprio essere e muoversi nel mondo.
Ecco la versione dell’intervista in video:
https://www.facebook.com/pinorotta/videos/1262717101286152