Franco Volpi. Un heideggerismo italiano
La quarta di copertina dell’edizione italiana di “Lettera sull’umanismo” di Martin Heidegger, a cura di Franco Volpi è lo standard dell’heideggerismo e delle sue vaste schiere. È una verleugnung, sconfessione, di massa universitaria quella a cui partecipa anche Franco Volpi.
Leggiamo l’estratto dall’introduzione di Volpi.
Con questa lettera scritta nel 1946 in risposta a Jean Beaufret che gli chiedeva come fosse possibile ridare senso alla parola “umanismo”, Heidegger sembra aver voluto rispondere, una volta per tutte, alle legioni pensose che nei decenni successivi si sarebbero poste l’interrogativo: dove sono, quali sono i valori? E perché - qualunque essi siano – tendono a subire un’immancabile «crisi»? Per porsi tali quesiti, occorre intanto ignorare che l’uso stesso della parola «valore» per designare ciò che in Platone poteva essere il bello e il buono è il segnale non di una crisi , ma di uno sprofondamento che ha tolto al pensiero ogni appoggio sicuro. E Heidegger è stato colui che ha descritto con la massima precisione l’origine e il manifestarsi di tale sprofondamento. Con questa lettera che divenne presto – e a ragione – uno dei suoi testi più conosciuti, egli ha voluto orientare il pensiero non già verso l’altisonante e vacuo «umanismo», ma verso quel complesso tessuto di pensieri, procedure, atti che costituisce le tecnica e domina il nostro mondo – di quell’«umanismo» vanifica ogni nozione, producendone al tempo stesso i nostalgici.
Volpi si protegge dalla sua stessa “sparata” nella risposta, che sembra invece sicura come ogni “pistolotto” che si rispetti e in effetti Franco Volpi era rispettabilissimo. «Heidegger sembra aver voluto rispondere». Così sembra a Volpi. Martin Heidegger non risponde a Jean Beauffret, ma – miracolo – a quelli che vengono dopo di lui, alle legioni pensose, che nella loro spettralità sono le legioni di cui fa parte Volpi, poiché rarissimi non seguono la corrente heideggeriana. Sono legioni che non pensano e che commentano un testo doppio, invisibile, intangibile, misterico.
Chi commenta è senza pensiero, senza operatore, ha un unico metaopertatore: il testo di riferimento, il testo ideale, negato – illeggibile e non letto nemmeno dalla sue ristretta cerchia di esperti. È il testo soggettivo, idolare, creato dal suo “lettore” come obbligo verso l’idolo della sua religione. Qui, l’idolo Heidegger. Chi si attiene al suo idolo ha nella sua quadratura del mondo lo spettro di Heidegger, l’altra sua faccia, quella negativa, che comprende tutto quello che non va e che non funziona: dalla metafisica, al calcolo, alla pubblicità, alla tecnica, agli Ebrei, per Heidegger i depositari dell’hold up dell’inizio sull’essere. “Hold up” che è quello di Martin Heidegger.
Perché questo dono di lettura del futuro? Nei vari aspetti della saccenteria del commentatore è compresa la notorietà dell’idolo scelto. Lo stesso incantesimo e la stessa fascinazione che subisce il commentatore è ancora più estesa del dominio della tecnica.
Non solo non c’è da sapere quali siano e dove siano i valori, non è nemmeno questione di crisi dei valori, ma di uno sprofondamento che ha tolto al pensiero ogni appoggio sicuro. Perbacco? Qual era l’appoggio sicuro che aveva il pensiero? La teologia, la filosofia delle origini, la filosofia tedesca, l’epistemologia, la logica matematica, l’astrofisica? Lo sprofondamento è aggiunto alla crisi in omaggio alla mutazione dell’eone di tempo che inizia con il Terzo Reich e lascia la porta spalancata al Quarto Reich, quello che in formato eurasiatico propone Alexander Dugin, la cui durata è quella auspicata da Adolf Hitler per il Terzo Reich.
Rimane che il tutto sembra, ma Heidegger è affermato come chi ha descritto con la massima precisione l’origine e il manifestarsi di tale sprofondamento. Heidegger come descrittore: esatto. Heidegger non scrive, descrive, come le legioni pensose. La scrittura dell’esperienza è tolta per una scrittura doppia: essoterica e esoterica. Ogni dottrina misterica ha un doppio linguaggio: quello per farsi capire e quello riservato agli iniziati. Per altro non è che sia meno idiota il linguaggio iniziatico.
Intanto il manifestarsi dello sprofondamento indica la sua sovradeterminazione, la sua implacabilità di necessità imperiale. Qui l’aggeggio non è la ruota dell’essere e nemmeno la catena significante. Non è qualcosa di tecnico: è la tecnica. Cosa direbbe oggi Franco Volpi che già alla sua tragica morte in biciletta l’orientamento del pensiero era verso l’altisonante e vacuo «heideggerismo»?
La tecnica che domina il mondo, la base di tutti i mali, di ogni demonologia, è misterica e nessuno sa cosa sia – a parte Martin Heidegger , che nei quaderni neri pratica la sigetica. Eppure è semplice per Heidegger: la tecnica è il braccio armato della macchinazione ebraica e la questione della tecnica è il braccio armato dell’antisemitismo di Heidegger, che non ha mollato nessuna delle sue pretese rispetto alla disfatta dell’esecuzione di Hitler. La realtà soggettiva e spettrale di Heidegger è questa. L’heideggerismo esegue. Franco Volpi: un esecutore.
Se la tecnica fosse la causa, il nazismo e le camere a gas sarebbero un suo epifenomeno. E infatti questo ha scritto Heidegger. La realtà spettrale di Heidegger ha trovato i suoi primi analisti, che restituiscono tutt’altra realtà effettiva: Hugo Ott, Victor Farias, Jean-Pierre Faye, Emmanuel Faye, Sidonie Kellerer, Stéphane Domeracki e altri. Non è la grande ondata detersiva: è la testimonianza civile inderogabile.