“L’onnifavola” di Francesco Saba Sardi
Ci sono incontri che hanno una particolare forza suggestiva perché riescono a scalfire l’abituale schermo attraverso cui vediamo il mondo. E’ quanto è capitato a chi scrive incontrando per la prima volta, a Milano, il triestino Saba Sardi che da molti anni vive nel capoluogo lombardo. Coltissimo, poliglotta di fine genialità, traduttore da cinque lingue, studioso di miti e riti, viaggiatore che ha vissuto in tutti i continenti nonché autore di una cinquantina di libri di narrativa, saggistica, poesia e viaggi. Un pensatore libero, “anti-normalinico” dovremmo dire, come lui si pone a partire da un termine di suo conio: la normalina, implicita nella struttura di tutte le attività e gli organismi presieduti da una norma, è la droga delle società cosiddette civilizzate, la droga che la triade del dominio – Potere, Religione e Guerra – dispensa a piene mani nel tentativo di dare un senso alla realtà e mantenere l’ordine. Il primo tentativo di dare un senso alle cose (e perciò anche alle parole) è nato con l’uomo civilizzato, cioè l’inventore della divinità e soprattutto del potere e della sovranità, e risale al Neolitico. La tesi provocatoria di Saba Sardi è che tuttora nel Neolitico ci sguazziamo, anzi, “il Neolitico siamo noi”, con buona pace dei progressisti. Tesi svolta nel suo ultimo libro, L’Onnifavola (Bevivino, pp. 227, 20 euro), in cui, spaziando dall’analisi della struttura letteraria di manuali, libri di storia e filosofia ma anche romanzi, che deve essere sempre trinitaria (premessa, corpo e conclusione - perché la Letteratura afferma che la vita ha un senso, e fa da specchio alla condizione esistenziale, replicando il sistema-potere) al discorso scientifico intento a elaborare artifici, in primo luogo macchine, l’autore affronta il tema essenziale del rapporto uomo–mondo. La favola, ovvero le favole (le fole) che ci raccontano e che ci raccontiamo, sono “lo strumento didattico che insegna l’impossibilità di muoversi nel mondo senza la bussola del dominio e delle sue metastasi”, e sono diventate per noi, neolitici moderni, l’equivalente della realtà, un modo per contenere l’angoscia. L’autore, partendo da lontano, addirittura dalla nascita dei miti, ripercorre la vicenda della conoscenza della conoscenza fino ad oggi, epoca in cui la normalina si eroga nei tribunali, nelle carceri, nelle caserme, nei manicomi, nei teatri, è implicita nella visione scientifica e tecnologica. Alla Letteratura, poi, che deve essere comprensibile a tutti perché il Potere ha bisogno del logos per convincere, viene attribuita la funzione di conferma dell’omologazione, evidente nella letteratura psichiatrica, nella storiografia, addirittura nell’erotopornografia, importante perché è il pretesto sul quale si fonda la censura. Ecco così costituirsi la triade Normalina-Letteratura-Discorso su cui si fonda l’esercizio del Potere. Questa tripartizione (sul modello della Trinità) è la struttura ricorrente nel Discorso occidentale, intriso di sottintesi di origine religiosa specificatamente cristiana. Nel Neolitico la parola pareva in grado di dare il potere sulla cosa, per questo era considerata magica: questa parola magica si è conservata nella normalina, come via di accesso al potere: “E’ il Potere a dare un senso alla vita” , “senza il Potere, i sudditi sarebbero senza meta”. Ma così facendo, rimangono “fuori dal mondo” le cose che un senso non ce l’hanno: la poiesis, l’erotismo, il riso, che scaturiscono dalla parola né asservita né censurata.
L’autore abborda l’argomento del suo libro con una provocazione forte: “Il Neolitico è stato il tentativo di introdurre il senso nel mondo”. Il senso: la principale avanguardia dell’equivoco. Chiedete al giovane che cos’è il senso e non potrà prescindere dall’immediatezza di ciò che sente sulla pelle, ma poi, via via immergendosi nella normalina, preferirà adottare l’una o l’altra favola. Così, i tribunali sono stati istituiti apposta per dare il senso della legge mediante le sentenze-favola del giudice, il suo “libero convincimento”, vale a dire la sua favola “sulla” verità: “La legge, scrive Saba Sardi, [è] l’ingiustizia che contiene il senso del sé”, e questo dopo millenni di esegesi di legioni di interpreti.
Fu dunque certamente un primo fallimento, quello “di introdurre il senso”: ne sorse un potere, da distribuire ai sudditi, per consolarli dell’“iniziale assenza di senso” della parola. Perdurando il Neolitico, oggi siamo passati dalle favole classiche alle favole dell’“astrofisica, che immagina accanto alla nascita dell’universo (Big Bang) la sua morte a opera, per esempio, di buchi neri onnidivoranti” e tutte valgono all’illusione di “trovare un senso”, come la favola di quel tale che vuole “trovare un senso a questa storia”, “a questa voglia”, “a questa vita”, e a quasi ogni altra cosa. La conclusione sconcertante di Saba Sardi è “essere favola tutto ciò che sappiamo”: l’onnifavola è quindi la dimensione in cui siamo immersi da millenni. L’affascinante analisi svolta in questo libro che farà discutere, mira evidentemente a una realtà nuova, la realtà dell’invenzione, dell’arte e della scrittura.
(Testo pubblicato su “Il Piccolo di Trieste”)